Ciclisti urbani
Erano mesi che volevo incollare qui sopra questo video dall'effetto ipnotico (almeno per me) soprattutto a causa della musica (almeno questo ho deciso dopo lunga riflessione). Ora ne ho l'occasione, con questo pezzo, qui sotto, che ho scritto sul giornale di domenica.
C’era nelle edicole trentine, ieri mattina, questo titolo di giornale dall’effetto agghiacciante, almeno sulle persone predisposte, che prometteva: «Arrivano i parcheggi per le bici». E fin qui tutto bene, a patto di ritenere che questa sia una necessità. Ma la mazzata arrivava al momento di leggere il sottotitolo: «Ecco i prezzi». Come scusa? I prezzi. Oppure le tariffe, come recitava un altro giornale raccontando la decisione della giunta comunale.
Detta così sembra la cronaca di una delibera allucinante che porterà i ciclisti urbani a scendere dal sellino e cercare in tasca la moneta da infilare nel parchimetro. Per fortuna andrà diversamente: pagheranno quelli che vogliono lasciare in sosta la bici alla stazione ferroviaria, chiusa in un recinto sorvegliato dalle telecamere, al riparo dalla pioggia e soprattutto dai ladri. Pagheranno poco: 50 euro l’anno, oppure 7 euro al mese, oppure 2 euro al giorno (e quest’ultima tariffa in realtà mi pare un furto). Oppure non pagherà nulla il ciclista che avrà in tasca anche l’abbonamento del trasporto pubblico. Ma per la prima volta nella storia passerà il principio che è possibile chiedere a un pedalatore di tirare fuori i soldi. Parlo da ciclista urbano per necessità e passione: sono convinto che sia giusto il contrario.
Non solo il Comune dovrebbe costruire i parcheggi e affidarceli gratuitamente (telecamere comprese) ma dovrebbe anzi pagarci. Insomma, meritiamo un premio Qualcosa di più rispetto agli omaggi sorteggiati l’estate scorsa tra i dipendenti pubblici che andavano al lavoro pedalando.
Finora abbiamo pensato che il nostro premio fosse la libertà impagabile di sfrecciare per la città misurando il tempo in manciate di minuti. Noi siamo quelli che da piazza Duomo all’ospedale Santa Chiara ci mettiamo cinque minuti e non dobbiamo cercare il parcheggio. Noi siamo quelli che da Cristo Re al centro storico ci mettiamo sei, sette minuti. Noi siamo quelli che una volta, alla vista del vigile urbano, dovevano smontare al volo in via Belenzani perché c’era il senso unico. E invece ora pedaliamo avanti e indietro grazie a un cartello che ce lo consente: grande vittoria, continuiamo pure ad allargarci.
Noi pensavamo che il nostro premio fosse questo: tempo, libertà e in fondo anche denaro perché il mio contachilometri (lo uso anche in città) in un anno segna più di 3 mila chilometri, pedalati tutti in centro, distanza che tradotta in benzina vale almeno 300 euro. Certo se mi rubassero la bicicletta mentre scrivo questo articolo, fatto purtroppo da non escludere, andrei solo in pareggio.
Ma ora che la giunta comunale ha studiato per noi le nuove tariffe, vorremmo replicare (parlo per tutta la categoria) mettendo in conto qualcosa a nostra volta. Non siamo mica in Giappone, dove ci sono parcheggi multipiano dedicati alle due ruote, oppure a Londra, dove i ciclisti sono raddoppiati da quando hanno previsto il pedaggio per l’ingresso in centro storico. Qui - cari assessori - siamo a Trento città dove le mamme danarose fanno la fila in via Verdi ogni pomeriggio con il gippone (zona a traffico limitato a quanto mi risulta) per andare a prendere i bambini che vanno a scuola dalle suore. E noi ciclisti respiriamo quei gas di scarico. Pedaliamo a chiappe strette in via Sanseverino per evitare che i camion ci facciano finire nell’Adigetto (per fortuna ora c’è il muro). Saliamo in sella anche con la pioggia, non perché siamo dei duri, ma perché rinchiuderci nell’auto ci renderebbe troppo tristi, e speriamo che le auto non ci facciano la doccia alla prima pozzanghera. Facciamo lo slalom tra gli alberi in quelle che il Comune chiama piste ciclabili e che in realtà sono solo strisce rosse disegnate sull’asfalto. Quando ci rubano la bici compriamo Bazar e ne cerchiamo un’altra usata con cui gettarci con incoscienza nelle rotatorie a doppia corsia che hanno invaso la città. Fosse per noi il maxi parcheggio di via Sanseverino potrebbe essere un parco con laghetto invece di una distesa di lamiere colorate. E corso Tre novembre sarebbe un viale alberato dove andare a passeggiare come i nostri bisnonni ai primi del Novecento. Non chiediamo (quasi) niente a nessuno, felici di muoverci in libertà, ma non fateci mai pagare il pedaggio per lasciare la bici al sicuro dai ladri. Caro assessore comunale, perché non costruisce il bicipark (e molte più ciclabili) con i soldi presi agli automobilisti? La giurisprudenza europea ha stabilito già da tempo un principio sacrosanto, riferito a vicende molto più rilevanti ma che vale anche per le piccole cose: «Chi inquina paga». Sarebbe assurdo trovare il modo di far pagare chi invece non inquina.
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Guardo incredulo le immagini dall'aeroporto di Fiumicino dove i dipendenti Alitalia esultano per il fallimento delle trattative per il salvataggio della compagnia: "
Alle 10 del mattino il parcheggio del rifugio dolomitico - si fa per dire, rifugio, visto che ci si arriva in auto - è identico al parcheggio cittadino, cioè pieno zeppo. L’unica differenza è che in città c’è chi rischia la multa lasciando l’auto in doppia fila mentre in montagna - a ferragosto - si può sempre sconfinare nei pascoli, come fanno quelli con il fuoristrada, felici - finalmente - di dare un senso alla loro autovettura. C’è un’altra differenza - volendo essere precisi - tra il parcheggio del rifugio dolomitico e quello cittadino ed è il valore delle auto in sosta che in montagna - a ferragosto - è così sfacciatamente alto che i titoli dei giornali sulla crisi pare si riferiscano a un altro paese. Dal parcheggio del rifugio dolomitico al rifugio dolomitico ci sono tre minuti a piedi lungo un sentiero di terra battuta e sassi, con mucche ai lati che fanno molto montagna. Sentiero battuto da due categorie di persone: quelli che credono di essere in montagna e quelli che vorrebbero molto essere in montagna ma per motivi vari si ritrovano, soffrendo, in queste città d’alta quota che si formano pochi giorni all’anno. Nelle città d’alta quota la gente parla di argomenti cittadini, perché quando si va in vacanza per tre giorni (e non due settimane o un mese) non si può chiedere al cervello di staccare la spina per poi riprendere il ritmo con fatica. Dirò così quello che ho origliato - mio malgrado, colpa del volume troppo alto - in una di queste città d’alta quota in cui mi sono ritrovato. Gli uomini parlano nell’ordine di lavoro, trasporti e soldi. Le donne parlano nell’ordine di figli, vacanze (non quelle che stanno facendo, quelle che hanno già fatto o faranno) e soldi. Soldi che - qualunque sia l’auto lasciata in sosta nel parcheggio - sono sempre troppo pochi. Così nella città d’alta quota si impara qual è la strada e l’ora migliore per arrivare lassù azzeccando una partenza e un ritorno intelligenti, dove fare benzina per risparmiare qualche centesimo, dove bisogna fermarsi per mangiare un panino, quale sia la tariffa migliore per telefonare o mandare messaggi, quanto siano stronzi i capi (o i dipendenti, dipende da chi parla), quale sia la migliore scuola di musica nella città di bassa quota e quale sia l’istruttore di tennis più capace. Delle vacanze in montagna - magari per consigliarsi a vicenda un sentiero da percorrere oppure un valle da esplorare - non si parla, tanto per le nuove scoperte non ci sarebbe il tempo. Si dibatte invece a lungo sulle tariffe del residence o dell’albergo, tema su cui ognuno è segretamente convinto di aver trovato un’occasione migliore del vicino. L’altro giorno, più o meno a metà pomeriggio, è successo qualcosa nella città d’alta quota di cui ero un triste cittadino. Forse coordinati da un tam tam di cellulari - Telecom Italia Mobile conosce i suoi polli e fa arrivare fin sotto le vette le onde 3g - o alla meno peggio Edge - che servono per connettersi a internet con i telefonini - gli abitanti si sono riuniti davanti all’unico televisore del rifugio (si fa per dire rifugio, c’è anche la tivù) per vedere la finale olimpica della staffetta 4x100 metri piani. Una gara di trentasette secondi appena, tra le più brevi di tutti i giochi olimpici, talmente veloce che per capire veramente com’è andata, con tutti quei passaggi di testimone a fare confusione sullo schermo, bisogna rivederla due o tre volte al rallentatore, l’ideale per gente che mangia al fast food e si gode vacanze mordi e fuggi. Così una piccola folla di commissari tecnici mancati si è goduta, a 2 mila metri di quota, l’incredibile gara di un giamaicano che ha corso in scioltezza la sua frazione con meno tensione di quanta ne avessero i suoi spettatori nel rifugio dolomitico. Da quel momento in poi lassù si è parlato solo di Usain Bolt, dei suoi record mondiali e dei suoi sponsor milionari. Tutti parlavano di lui, tranne i bambini più piccoli (quelli cresciuti erano già corrotti), gli unici che lì fuori si erano accorti che le mucche attorno al sentiero erano vere e con un po’ di attenzione si poteva persino toccar loro la coda.
Chiedo scusa all'arte, agli artisti, agli amanti del bello, ai sostenitori del nuovo e confesso: sono uno di quelli che l'altra sera ha pensato che a Sardagna avessero aperto una nuova discoteca. Tornavamo da Rovereto quando - all'altezza di Mattarello - abbiamo visto quel raggio luminoso attraversare la valle dell'Adige puntando su Povo, Cognola e Martignano per poi tornare indietro e ripetere il suo giro. Poiché so bene che lassù c'è l'hotel dell'Università ho immaginato che forse c'era una festa, un convegno di scienziati impegnati in chissà quali misurazioni oppure - come mi hanno fatto notare gli altri passeggeri - erano i vigili del fuoco che cercavano un disperso facendosi luce con le fotoelettriche. Solo una volta giunti in città - dopo la telefonata di un collega che sperava di fare con me chiarezza sul mistero - abbiamo saputo il perché di quel raggio laser: "Signore e signori, quella è arte" ha detto divertito uno degli uomini che stava montando il tendone per la festa del rione. "Arte moderna" ha aggiunto facendo un ampio gesto con la mano.
Via i vecchi nastri. Da tempo volevo farlo e la notizia che ho letto ieri mattina ha rinnovato in me la convinzione, anche perché il vecchio registratore è in soffitta già da tempo e non saprei come ascoltarli: prima che ci pensino le
C'è un posto dove la gente ha molti soldi da spendere. Milioni. Miliardi di dollari. Prima di uscire di casa infilano pacchi di banconote nella borsa e se per strada ne perdono una da 100 mila dollari pazienza, non morirà nessuno. Il caffè può costare un milione di euro alla mattina, due milioni alla sera - naturalmente in dollari - perché i prezzi galoppano, nessuno si stupisce, ci hanno fatto l'abitudine. C'è gente che guadagnava 10 miliardi di dollari al mese e ha smesso di andare al lavoro perché i soldi non fanno la felicità in un paese dove anche le prostitute vogliono essere pagate in diesel: meglio una tanica di gasolio che una carriola piena di banconote.
Questo è un post molto sofferto. Volevo vantarmi di aver scritto un libro, ma essendo un libro fotografico la parola scrivere mi sembrava fuori luogo. Allora ho pensato di vantarmi delle fotografie, ma poiché non sono mie, ma immagini storiche scattate nei primi anni Quaranta, quando non erano nati nemmeno i miei genitori (figuriamoci io) ho dovuto lasciar perdere. Un vanto però ce l'ho ugualmente: quello di aver raccolto centinaia di immagini - assieme al mio amico Filippo Degasperi - di aver cercato (e trovato) tre alpini ormai ultra novantenni che potessero raccontare questa storia e di aver fermato le loro parole su carta prima che sia troppo tardi.
Non contate le piccole Cinquecento che compongono la Cinquecento della pubblicità per vedere se sono veramente cinquecento. L'ho appena fatto io, non ho resistito: sono 542, non 500. Mai fidarsi dei pubblicitari, categoria su cui potete imparare qualcosa leggendo 
In materia di tecnologia c'è una vecchia teoria secondo cui il motore che porta gli utenti a dotarsi di strumenti nuovi sarebbe il
Nella vita bisogna sempre cercare di fare cose nuove... così mi sono dato ai video. Nella foto mi vedete con la mia mini telecamera acquistata su eBay mentre intervisto un candidato al Senato del Partito delle libertà (Giacomo Santini). Io sono quello con le camper. Un esempio di quello che sto facendo lo trovate
Mi rubano l’energia elettrica. Accade notte e giorno, me la fanno sotto il naso. Non volevo crederci, la settimana scorsa, quando insospettito da un articolo di 
Una nuova categoria di sommelier sta crescendo accanto agli esperti del vino che da anni popolano il Trentino: i degustatori del latte crudo. Si possono trovare, armati di bottiglia a collo largo, a nord della città, preferibilmente la sera quando cala il sole e arriva da Aldeno il furgone carico di un centinaio di litri di latte appena munto. Non basta lo sconto (un euro al litro, quando il latte d'alta qualità ne costa in negozio 1,26) a spiegare perché un padre di famiglia prende l'auto e va in periferia a fare il pieno al distributore automatico. E' più probabilmente una reazione allo scippo dell'industria che per anni ci ha fatto credere che il latte sia un prodotto asettico che chissà come esce dalla centrale finito, inscatolato, sterilizzato e senza grassi. Al distributore invece no: si tratta forse del metodo d'acquisto che più avvicina il consumatore alle mammelle della vacca, ad eccezione della stalla che - diciamo la verità - con il suo odore di letame, lo sporco e d'estate anche le mosche farebbe passare l'entusiasmo anche alla naturalista più convinta.
Ho un inceneritore in casa e nemmeno lo sapevo. L'ho scoperto l'altro giorno guardando il telegiornale regionale quando, con un occhio al cielo nuvoloso e l'altro al termometro in picchiata già mi preparavo a “stizar”, cioè ad attizzare il fuoco anche se il termine italiano non rende l'idea delle sensazioni che stanno dietro il semplice gesto di accendere la stufa. Sullo schermo c'era un assessore della provincia di Bolzano che spiegava come le stufe a legna siano tra le principali fonti di polveri sottili, di non bruciare cartacce o altri rifiuti perché producono – orrore! – diossina, di andarci piano con la legna verde e di chiamare lo spazzacamino per tenere in ordine la canna fumaria.
Se ti piace la folla, se non ti danno fastidio l'odore di sudore e gli schiamazzi, se il rumore dei motori a fondovalle per te è una musica, se consideri il tempo passato in coda un'occasione per riposarti, allora sali ai 3.152 metri del Piz Boè in una domenica d'agosto: troverai tremila persone (per la maggior parte arrivate con la vicina funivia del Sass Pordoi) che hanno avuto la stessa, fantastica, idea. Poi incolonnati sul sentiero che ti riporterà a valle, dove avrai lasciato l'auto nell'immenso parcheggio del passo Pordoi e torna a casa soddisfatto per aver vissuto un'esperienza forte: la montagna usa e getta, quella che le agenzie turistiche propongono a chi non ha tempo per una settimana sulle Dolomiti ma deve concentrare in sette giorni Venezia, Riva del Garda, Innsbruck, il Mart di Rovereto e se la stagione è quella giusta - tappa d'obbligo - i mercatini di Natale. Se invece tutto questo ti rende un po' triste, sali lassù di lunedì, magari anche in funivia (che in fondo è una gran comodità) e bevendo un the caldo sulla terrazza della Capanna Fassa scoprirai un'altra montagna.