fuoridalpalazzo

06 luglio 2008

La sfida sulla ciclabile

Bisognerà pur spiegare perché questo blog giace da oltre un mese inanimato. Tutta colpa di una passione antica che è ritornata prepotente e non lascia spazio al resto. Il fatto è che da qualche tempo io e il collega P. ci siamo messi in mente di tornare a scalare i passi dolomitici in bicicletta. Anche uno solo (e poi basta) ma prima dobbiamo farci le gambe sulla pista ciclabile.
Così l'altro giorno ci siamo dati appuntamento al ponte di San Lorenzo e abbiamo iniziato a pedalare verso sud, ritmo tranquillo, scambiando quattro chiacchiere. Ma poiché siamo tipi competitivi quando abbiamo visto sfilare due magliette colorate ci siamo lanciati cercando di metterci a ruota. Sfruttare la scia senza mai dare il cambio può sembrare un atto vile, ma a volte non c’è altro da fare. L’abbiamo scoperto al ponte di Ravina quando i due davanti hanno cominciato a pestare sui pedali. All’incrocio del ponte di Mattarello abbiamo sperato che mollassero un attimo, ma quelli - un’occhiata a destra e una a sinistra - hanno ripreso più di prima. Al piccolo cantiere di Besenello ero sicuro che quel cartello (biciclette a mano) fosse la nostra salvezza, ma le due locomotive hanno superato la ghiaia come fosse il pavè del nord Europa e hanno accelerato ancora.
Per evitare di prendere vento tenevo la mia ruota a cinque centimetri da quella che mi stava davanti, insomma gli stavo nel culo, la distanza minima che abbia mai tenuto da un fondoschiena maschile, ma non mi formalizzavo pur di restare agganciato al treno. Cercavo - dai pochi indizi disponibili - di capire chi avevamo di fronte: polpacci depilati, forcella posteriore al carbonio, bicicletta molto costosa, abbigliamento con gli sponsor. Signori e signori giù il cappello: stavamo tenendo il ritmo di due professionisti. Gente di classe, tanto che quando ci avvicinavamo a una colonna di turisti li avvisavano con un fischio secco perché si togliessero di mezzo.
Su un lungo rettilineo, incrociando gente che correva come noi sul nastro d’asfalto, ho cercato di distrarre il cuore che mi supplicava di fermarmi, immaginando che accade a due ciclisti che a testa basta si scontrano frontalmente a 40 chilometri all’ora più 40 chilometri all’ora. Senza casco.
Incollato lì dietro mi chiedevo cos’era quel bip-bip intermittente che si faceva sentire e si zittiva. Poi l’illuminazione, ricordando gli articoli che avevo letto dal barbiere su Bici Sport: era l’allarme del cardiofrequenzimetro. Ho pensato: tra un po’ gli viene un infarto, gli sta bene. Ma invece di rallentare, al suono del bip-bip lui accelerava perché in realtà era il segnale che non stava faticando abbastanza. Andava a spasso. Troppo per me: quando una Cinquecento riconosce una Ferrari cede il passo. Ad andatura lenta siamo arrivati al Bicigrill di Nomi - io e P. - consolandoci l’un l’altro: è gente che va in bici tutte le mattine, non hanno altro da fare, tipi che lavorano sei ore al giorno, non hanno mica i figli da portare all’asilo, magari fanno gare, sicuramente sono dopati. Già, con la condanna per doping abbiamo chiuso il caso ordinando un te’ al limone perché noi siamo gente che al fisico ci tiene.
Solo cinque minuti dopo, quando è suonato ancora quel bip-bip, ci siamo resi conto che nel tavolo accanto c’erano loro, i due campioni. Ne ho riconosciuto uno dal polpaccio secco e lucido: stavano lì a bere due bicchieri di vino bianco ghiacciato (loro), con i capelli bianchi. Due vecchietti. Si sono alzati per tornare a Trento e ci hanno fatto un cenno come per chiedere se volevamo un altro “passaggio”. No grazie, abbiamo risposto, ci riproviamo il mese prossimo.

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30 maggio 2008

Nulla da dichiarare?

Invidio molto quelli che sanno compilare, da soli, la dichiarazione dei redditi o che almeno si rendono conto di cosa accade quando con una busta piena di carte si recano al Caf, o dal commercialista, per affidarsi a loro. Io, purtroppo, non ci capisco nulla. Viziato da anni di sollecitudine paterna, in cui lasciavo volentieri a mio padre l’onere di tracciare numeri, calcoli e crocette sommerso da cumuli di carte sul tavolo del soggiorno, viziato da anni successivi in cui a tutto questo pensa l’amico D. anche stavolta sono stato relegato al ruolo di fattorino: corro di qua e di là a recuperare carte indispensabili che, puntualmente, o non ho mai avuto o non riesco più a trovare.
Conosco lo sguardo dell’esperto (o anche solo della persona accorta) che mi compatisce perché non so più dove sono le fatture del dentista, gli scontrini delle medicine o i tagliandi delle polizze assicurative. Il fatto è che so benissimo quanto ho pagato - all’epoca - ma non ho la minima idea di quanto mi possano far risparmiare questi documenti nel momento in cui li presento al Fisco. Per questo li perdo sotto strati di carte, salvo trovarli l’anno successivo, quando non servono più a nulla.
Quest’anno, per capire almeno di che cosa si sta parlando, sono andato dritto alla fonte: mi sono collegato al sito internet dell’Agenzia delle entrate e in meno di un minuto mi sono scaricato l’annuario del contribuente, un tomo di 193 pagine scritte larghe. Con questo - ero sicuro - avrei scoperto tutto. Dovevo imparare ad esempio che cosa vuol dire esattamente scaricare un figlio, visto che mi è sempre rimasto il dubbio - tra me e mia moglie - di averlo scaricato solo per metà, o forse tutto o addirittura due volte, cosa che se fosse vera - ho letto - mi potrebbe provocare guai con la giustizia. Con l’annuario in mano mi sono rassicurato, tutto in regola, ma ho scoperto anche altre cose interessanti che mi saranno di aiuto per capire quanto realmente mi frutterà il figliolo nella busta paga di luglio dopo averlo “detratto” e non “scaricato”: «Per determinare la detrazione effettiva è necessario moltiplicare la detrazione teorica per il coefficiente (assunto nelle prime quattro cifre decimali e arrotondato con il sistema del troncamento) che si ottiene dal rapporto tra 95.000, diminuito del reddito complessivo (al netto dell’abitazione principale e delle sue pertinenze) e 95.000. Se il risultato del rapporto è inferiore o pari a zero, oppure uguale a uno, le detrazioni non spettano». Ottimo.
Ora che mi sto facendo una cultura so qual’è la differenza tra una deduzione e una detrazione, ma mi hanno spiegato di non illudermi perché ciò che quest’anno si detrae l’anno prossimo probabilmente bisognerà dedurlo. La deduzione conviene a chi guadagna molto, la detrazione a chi guadagna poco. Ma non lo metterei per scritto.
Le spese per il veterinario, per esempio, quest’anno si detraggono: «I contribuenti possono detrarre dall’Irpef il 19% delle spese veterinarie fino all’importo di 387,34 euro e limitatamente alla somma che eccede i 129,11 euro: la detrazione spetta per le spese mediche sostenute per gli animali detenuti legalmente a scopo di compagnia o per la pratica sportiva». Questa almeno l’ho capita, tante parole per dire 50 euro al massimo. Peccato non avere un cane.
Ho ancora dieci giorni per correre in banca a farmi stampare il foglio con gli interessi del mutuo, raccoglierò gli scontrini sparsi per la casa e a luglio troverò in busta paga una cifra “x” che - per quanto alta o bassa - non sarò mai in grado di contestare. Allora dirò semplicemente: però!
Uno studio americano che mi hanno insegnato all’università afferma che si pagano le tasse più volentieri (sic!) quando non sono troppo elevate, quando sono ben utilizzate e quando si capisce bene il modo in cui sono calcolate. Per quanto riguarda il punto tre ringrazio l’Agenzia delle entrate perché grazie al suo annuario so quanto vale avere un figlio in casa. Forse.

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26 maggio 2008

Sono morto già tre volte

tombaCaro Giuseppe Debiasi, proprio tu che ti sei finto morto perché non ti consideravano abbastanza, giocandoti l'asso nella manica, l'ultimo, per catturare un po' d'attenzione: sapessi quante volte sono morto io! Ho cominciato da bambino a immaginare il mio funerale come punizione estrema per tutti quelli - erano molti - che non comprendevano la mia grandezza, i miei bisogni e il dolore di vivere incompreso.
Per avere una bicicletta nuova non bastava mettere il muso per due giorni, non bastava nascondersi nel bosco e fingersi disperso contando i minuti (o le ore?) che ci mettevano prima di correre a cercarmi. Di più, di più, per far pentire mamma e papà dell'affronto subito negandomi il regalo bisognava fare di più. Bisognava, ad esempio, morire. Solo allora, di fronte alla mia piccola bara bianca, tutti i miei detrattori (compresa la maestra) si sarebbero pentiti di non aver assecondato un genio: se solo mi avessero comprato quella bicicletta.
Così, caro pittore, con la mia fantasia immatura, scoprivo il potente antidoto alle frustrazioni, grandi e piccole, che è immaginare il proprio funerale con gli occhi del mondo, per una volta, su di noi.
Metterlo in pratica mai. Me ne mancavano i mezzi e soprattutto il coraggio, ma confesso che ho organizzato altre volte le mie esequie, come quando ho sbagliato il gol della vittoria e mi son chiesto: si placherà l'ira della squadra davanti alla mia bara, ormai non più bianca ma fatta di solido rovere? Si sarebbe placata senza dubbio - cos'è un gol di fronte alla morte? - ma sarebbe stato un peccato dire addio al mondo con una tal vergogna in fondo a un così breve curriculum. Così sono sopravvissuto con la promessa - mantenuta - che non avrei mai più giocato a calcio né guardato le partite alla televisione. E so benissimo che per molti questo equivale alla morte, ma io rispondo: non è vero.
La terza volta che son morto fu per colpa della mia ex ragazza che, lasciandomi, dimostrò di non aver capito nulla. Niente di meglio che un solenne funerale - bara in legno di noce, fiori bianchi, tre preti dietro l'altare e coro parrocchiale - per convincerla dell'errore. Ma ascoltando quella canzone di Niccolò Fabi, quella in cui lei si presenta al funerale di lui indossando un vestito rosso (e non nero) mentre il migliore amico del morto se ne sta tranquillo a casa, mi son detto che non avevo le palle per rischiare: se fosse venuta in rosso sarei morto davvero. Meglio vivere, se non altro per vedere come va a finire.
Da giornalista la tentazione di morire è dietro l'angolo, perché non basterà certo un pezzo come questo per convincere i lettori della grandiosità di tutti noi uomini della comunicazione, convinti di parlare a migliaia (milioni!) di persone. Un bel funerale sarebbe più efficace, magari preceduto da una valanga di necrologi, compresi quello del direttore e dell'amministratore delegato, e da quattro pagine grondanti dolore con le fotografie che mi ritraggono - sguardo intelligente - a battere le dita sul computer.
Ammetto che noi giornalisti in questo siamo più fortunati, altro che la mezza paginetta che abbiamo dedicato a te pittore quando pensavamo che fossi morto per davvero. Moriamo in gloria, ma io saprei fare di meglio, almeno nel pensiero: dovrei andarmene di morte ingiusta, meglio lontana (per far durare di più la notizia in attesa del rientro della salma), possibilmente nell'esercizio delle mie funzioni, nel tentativo di mettere la mia vita sul piatto di molte altre, cosa che senza dubbio farebbe di me un eroe. Ma tutto questo per me, cronista di provincia, è chiedere troppo anche alla fantasia. Quindi vivo. Anche perché crescendo scopri che le lacrime degli altri di fronte alla tua bara più che soddisfazione ti provocano tristezza. E se questo è il prezzo da pagare per essere (finalmente!) al centro dell'attenzione, allora è meglio stare nell'ombra. Insomma morire (per finta) è un gioco da bambini. Vivere, da uomini, è tutta un'altra cosa.

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14 maggio 2008

In vacanza nel deserto

Duna a Porto Pino in SardegnaCè un motivo ben preciso che porta molti trentini a prendere le ferie nello stesso periodo (anzi in due) creando qualche grattacapo ai capi ufficio e ai direttori del personale. I periodi sono giugno e settembre e il motivo è presto detto: il trentino medio ama andare in ferie in un luogo immacolato (almeno come i boschi e i pascoli a cui è abituato), possibilmente al mare (perché la montagna ce l’ha già dietro casa), ma soprattutto vuoto. Tanto che al rientro in ufficio la lode più sincera e appassionata che un trentino può spendere per raccontare le vacanze suona più o meno così: "Tei, bellissimo, non c’era nessuno".
E’ un mistero come in un mondo collegato dagli aerei e sempre più popolato i trentini riescano a trovare posti turistici (su questo non c’è dubbio, parliamo di Sardegna, Grecia, Egitto o Tunisia) dove non incontrano mai nessuno.
Naturalmente il "nessuno" va interpretato in senso ampio, significa che non c’è in giro "nessuno come noi", cioè turisti allo sbaraglio. Gente invece ce n’è eccome, ad esempio i cittadini del posto che invitano i trentini (solo loro, par di capire) a gustare vini e formaggi locali nelle loro abitazioni e spiegano le usanze del posto in una lingua, chissà come, ai trentini comprensibile. Questo almeno è quello che i trentini raccontano in ufficio quando in agosto - unici in Italia - si ritrovano a lavorare dietro la scrivania (deserta anche quella) a loro modo furbi, perché non c’è niente da fare.
Il trentino medio si presenta in bassa stagione ai limiti di una bianca spiaggia del Mediterraneo. Poiché l’estate vera deve ancora arrivare (o l’autunno è alle porte, a seconda delle situazioni) può capitare che indossi i calzini bianchi nei sandali tedeschi. Con un’occhiata misura la rena prima a meridione e poi a settentrione, dove però la vista è turbata da una presenza aliena che può rovinare l’illusione: una madre, due bimbi e un ombrellone. Allora si dirige senza indugio in direzione opposta (via dalla pazza folla!) finché doppiata una duna di sabbia che nasconde gli altri turisti, pianta le tende, prende il telefonino e racconta al mondo la sua conquista: "Tei, bellissimo, non c’è nessuno". Anzi: nes-su-no.
Non c’è bellezza naturale, meraviglia della cultura e della tradizione oppure villaggio incontaminato che regga al fascino di una località deserta, come la vogliono i trentini.
C’è anche un motivo economico - inutile negarlo - perché l’idea di pagare 20 o 30 per una vacanza che ad altri, il mese dopo, costerà 100 o 200 riempie il cuore di soddisfazione e fa sentire intelligenti. Quella del prezzo è l’altra variabile che rende la vacanza indimenticabile, tanto che al rientro si esclama felici: "Tei, bellissimo, ho pagato pochissimo".
Anche in una località affollata ci può essere, dietro un promontorio o nella valle accanto, uno spazio deserto che ogni trentino vuole conquistare. Le informazioni su dove si nascondano questi luoghi ameni (introvabili per le grandi masse ottuse, almeno così parrebbe, magari perché sono infestati da vipere o vespe) circolano con grande parsimonia: i luoghi dove non c’è nessuno sono sempre più rari e poiché il trentino medio è abitudinario, punta a tornarci l’anno dopo per ripetere l’esperienza.
Gli amanti di questo genere di vacanza, maltempo a parte, corrono un solo, grosso, rischio: quello di incontrare nella scoperta dei deserti qualcuno che appartiene alla stessa specie. Uno di loro. Peggio: un trentino. Non c’è peggior disgrazia che scoprirsi intelligenti in due, perché ti viene il dubbio di non esserlo per niente. Siamo così pochi che ci conosciamo a vista, così un trentino medio posto di fronte al suo simile ha solo due possibilità: riderci sopra e organizzare qualcosa in compagnia, oppure girarsi dall’altra parte fingendo di non aver visto e bisbigliando alla moglie di fare lo stesso. Allora lei ubbidirà (è trentina), proprio lei che in quella landa desolata, sebbene splendida, si era illusa di aver trovato qualcuno con cui scambiare, finalmente, quattro chiacchiere.

P.S. quello nella foto non è il deserto, bensì una duna della spiaggia di Porto Pino (nel Sulcis, in Sardegna)

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05 maggio 2008

Il guardone dei redditi

guardone di redditi
Il sogno di ogni italiano medio si è avverato per me nel cuore della notte, di fronte allo schermo del computer con l’elenco sterminato dei redditi dei trentini. Impossibile dormire, finalmente potevo sapere. Solo non riuscivo a decidere da dove cominciare a sfogare l’istinto guardone con cui tutti, più o meno, dobbiamo fare i conti.
I ricchi li conosciamo già: vediamo le loro case, le loro auto, sappiamo che lavoro fanno, dove vanno in vacanza e in quale scuola mandano a studiare i figli. No, nell’infinita lista le vere curiosità stanno nel mezzo dov’è possibile ingaggiare duelli virtuali (o se preferite guerre tra poveri) a chi possiede più denaro, promuovendo la moneta unità di misura del valore umano.
Seduto in poltrona con il pc portatile sulle ginocchia, in mutande (giusto per rendere l’idea) ho cercato prima me stesso, per stabilire un’arbitraria linea di confine, quindi mi sono lanciato alla ricerca di vicini, conoscenti e infine dei colleghi in una continua sfida che creerà vari problemi ai direttori di quelle aziende (tutte) dove le buste paga arrivano chiuse e cambrettate.
La sfida dei redditi è un gioco stressante: soli di fronte al computer si gode, si soffre e ci si indigna a fasi alterne, rivaleggiando con chi ci sta vicino perché i ricchi veri per noi gente normale sono così distanti che nemmeno con la spinta dell’invidia si possono raggiungere. Il ministro e l’agenzia delle entrate non si illudano: è solo una curiosità morbosa che non farà aumentare le denunce di evasori al numero verde della guardia di finanza.
Dopo mezz’ora di studio attento e scrupoloso (interrotto dalla telefonata di un collega che, come me, tirava tardi ad analizzare buste paga) mi è capitato di stufarmi. In quell’elenco di nomi e numeri non sapevo più chi cercare. Così sono partito dall’inizio, dai miei compagni di scuola, per vedere cos’eravamo diventati, usando il colore del denaro per tracciare il ritratto della mia generazione. Cercando disperatamente di ricordarmi i loro nomi ho ritrovato i secchioni della prima fila che con lo studio matto e disperatissimo si sono conquistati un posto in cattedra al liceo: 23 mila euro lordi l’anno. Ho ritrovato (frugando tra i redditi di un’altra città, su internet c’è di tutto) quella ragazza brava che insegna all’università (50 mila euro destinati a crescere perché negli atenei si parte lenti), un medico vero che si è fermato a 60 mila euro (perché in rianimazione si salvano le vite ma non si effettuano visite a pagamento) e un medico finto (nel senso che non visita nessuno, ma firma certificati per le aziende) che supera di slancio i 100 mila.
Ho rivisto quelle due ragazze che presumo siano sposate, perché con 5 mila euro non si campa se non c’è qualcuno che paga i conti. E quel compagno bocciato alla maturità, su cui nessuno avrebbe scommesso un soldo, che aveva un reddito di tutto rispetto elencato sotto quello (quadruplo) del padre.
Quello che dicono gli scienziati per la mia classe è vero: i belli (modestamente) guadagnano di più. Ma anche i brutti hanno speranze, come l’avvocato G. (73 mila euro) o quel ragazzo che organizzava gite, feste in discoteca e partite di pallone e ha avuto discreto successo come venditore (60 mila euro).
Ad un certo punto ho scovato A. inchiodato a 9 mila euro di lavoro dipendente, insomma uno sfigato se non sapessi che lavora sei mesi e il resto dell’anno gira il mondo (quella parte del mondo dove la vita costa poco) con una tizia che la pensa come lui. Quando torna riempie la casa di libri e invita gli amici a cena per raccontare storie da cui non caverà mai nulla ma che valgono più di 9 mila euro.
C’era infine al liceo uno che non c’era mai, nel senso che non veniva a scuola. Soprattutto in primavera. Durante i temi in classe copiava e l’ha sempre fatta franca. Nell’enorme lista l’ho beccato alla lettera C., ma è come se non ci fosse, proprio come una volta: reddito zero. A scuola aveva imparato che fare il furbo paga e ha continuato a farlo.

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25 marzo 2008

Un regalo "senza se"

giraffa colorataOrmai ci siamo abituati. Ci telefonano la mattina presto, quando sono sicuri di trovarci, per regalarci due mesi di televisione a pagamento se facciamo l'abbonamento per un anno. Al supermercato ci regalano un prodotto se ne acquistiamo altri due uguali. Quando si avvicinano le vacanze ecco che un'agenzia viaggi ci regala una vacanza per una persona in Tunisia, purché sia accompagnata da un'altra a pagamento. Abbiamo le case piene di atlanti stradali, orologi e radioline ricevuti con l'abbonamento dei giornali e sull'auto c'è il condizionatore omaggio, promesso dal concessionario quando abbiamo firmato l'assegno da ventimila euro. Quand'è Natale facciamo visita agli amici muniti di regalo, ma solo se pensiamo che gli altri facciano lo stesso e quando camminiamo per la strada stiamo attenti a non accettare biglietti, fiori o piccole spille che sarebbero in regalo ma prevedono in cambio una somma di denaro che a quel punto, con un odioso gingillo in mano, non sappiamo più rifiutare. Anche la banca ha un regalo pronto per noi se presentiamo loro un amico disposto ad aprire un conto. Così l'altra mattina non credevo alle mie orecchie di fronte a un regalo “senza se” mentre passeggiavo in centro storico.
Stavamo lì, io e mio figlio di tre anni, fuori dal supermercato, io con la bicicletta in mano e lui sul seggiolino, quando ci ha avvicinato un tizio da dietro, uno con la faccia scura che non saprei meglio definire, uno di quelli che tutti noi, per pigrizia o ignoranza, chiamiamo semplicemente zingari, oppure nomadi quando vogliamo essere gentili, senza sapere bene che gente sia.
Quella parte di città è una zona ad alto rischio, non si spiega altrimenti la decisione del supermercato di assumere una guardia armata. Ma quando ho alzato lo sguardo cercando la protezione dell'uomo in divisa, munito di pistola, ho visto che aveva già terminato il suo servizio: dovevo cavarmela da solo.
Lo zingaro, che camminava sghembo con l'aiuto di un bastone, ha tirato fuori qualcosa dalla tasca e l'ha avvicinata al mio bambino. Era una piccola giraffa. Uno di quegli animaletti colorati, tenuti insieme da fili elastici, che quando schiacci il bottone sotto il piedistallo chinano la testa e poi le zampe fino ad afflosciarsi senza vita (ma poi all'improvviso si riprendono). L'uomo schiacciava il pulsante e il piccolo rideva. Lui schiacciava e l'altro rideva, poi gli ha messo la giraffina in mano e io mi sono preoccupato: bastardo, ho pensato, ora dovrò comprarla. Ma mentre il piccolo schiacciava il pulsante, felice, alla scoperta di come le giraffe colorate chinano il capo e all'improvviso lo rialzano, lo zingaro si allontanava senza nulla domandare, facendo anzi segno che non c'era nulla da pagare. Pochi secondi dopo era già sparito dietro l'angolo, senza darmi nemmeno il tempo di dire grazie. Ma poiché appartengo a una società di individui tristi e preoccupati (gente tirata su con l'ordine di non accettare le caramelle dagli sconosciuti) l'idea di ringraziare mi è venuta solo dopo una serie di pensieri lugubri e assurdi il primo dei quali era che la giraffa fosse avvelenata, quindi che fosse verniciata con colori cinesi tossici e proibiti e infine (terzo pensiero) che fosse stregata tanto che al solo premerne il bottone saremmo caduti – io e il mio figliolo – in balia dello zingaro senza scrupoli, appostato poco distante. Nulla di tutto questo. L'unica sciagura è stata che la sola persona che ci ha messo in mano un regalo “senza se” non ha ricevuto un grazie in cambio.
Non credete a questa storia? Niente paura, non ci credevo nemmeno io quando abbiamo ricevuto la giraffa nella zona più pericolosa della città (sic!). Allora ho pensato all'ultima volta che avevo regalato qualcosa ad uno sconosciuto, senza volere nulla in cambio, senza nemmeno esserne parente e non mi è venuto in mente niente. Una lacuna – mi sono detto – che doveva essere colmata. Perché certi episodi strani e all'apparenza inspiegabili hanno di buono che sono contagiosi.

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17 marzo 2008

La salvia di San Giuseppe

scarpe camper tra la salviaIl giorno della fiera di San Giuseppe ci svegliamo di buon mattino e ci illudiamo di essere contadini perché la natura in cui corriamo ad immergerci ogni domenica, per un giorno, ce l'hanno portata giù in città. Allora ci aggiriamo tra i piccoli trattori e le falciatrici, rammaricati perché purtroppo per tagliare l'erba gatta nel vaso sul terrazzo ci bastano le forbici. Quindi con occhio esperto corriamo a vedere gli animali e, sperando di non essere smentiti da un contadino vero, raccontiamo ai nostri figli caratteristiche e schede tecniche di mucche, capre, conigli e puledrini. Poi – dopo aver controllato con occhio languido la sezione arredo giardino, noi che un giardino non ce l'abbiamo – ci dirigiamo verso il centro storico pieno di fiori, sementi, piante e alberi che catturano la nostra immaginazione: “Cara – diciamo con voce sognante – e se quest'anno ci prendessimo un limone?”. Lui – il vivaista che la mattina all'alba ha trasportato i suoi pezzi migliori in piazza Duomo – coglie la palla al balzo e ci spiega che per tirare su un limone o un arancio non ci vuole niente, non serve mica essere in Sicilia o in Israele, basta avere l'accortezza quando arrivano i primi freddi di prendere un telo di plastica e metterglielo sopra prima che arrivi il gelo. Ma anche a noi gente di città – abituati a calpestare il cemento e a respirare polveri – il pensiero di una piantina di limone infilata in un cappuccio da novembre a marzo mette i brividi. Così ripieghiamo su un gelsomino, perché lo sappiamo talmente resistente che a dargli un po' d'acqua (nemmeno troppa in realtà e nemmeno ad intervalli regolari) verrebbe su tranquillo anche in una pietraia. Ma non serve dirlo troppo in giro, meglio invitare gli amici a prendere un caffè sul terrazzo a fine maggio – quando sbocciano i fiori bianchi e profumati – e fingendo indifferenza dire: “Guarda qua, la mia creatura. Sapevi che oltre a fare il giornalista ho pure il pollice verde?”.
Ma un gelsomino ce l'abbiamo già. E nemmeno noi che tutti gli altri giorni (ad eccezione di San Giuseppe) con le piante siamo delle bestie, siamo riusciti a farlo deperire. Così l'anno scorso – per festeggiare la primavera che a Trento inizia con la fiera dei fiori – ci siamo portati a casa una pianta di salvia. Eravamo là davanti al banchetto e ci siamo detti: perché no? Quest'anno puntiamo sugli aromi. E ci siamo comprati quel cespuglio pensando che a mezzogiorno saremmo usciti sul terrazzo a cogliere due foglie (dei veri contadini!) per metterle in padella e farci i ravioli burro e salvia.
La nostra era una salvia strana. A partire da quelle foglie più strette di quelle un po' pelose che eravamo abituati a vedere nell'orto della nonna. Ma sul biglietto c'era scritto salvia a chiare lettere e noi – essendo gente abituata a leggere le istruzioni per affrontare ogni questione – ci siamo portati a casa il vegetale garantiti e soddisfatti. Il giorno successivo alla fiera inaugurammo la nuova stagione culinaria strappando due foglie (un gesto che ci faceva sentire gente di campagna) per metterle in padella. A pranzo non si sentiva volare una mosca. Eravamo troppo impegnati ad assorbire i nuovi sapori della cucina casalinga senza il coraggio di confessare l'un l'altro che in verità i ravioli nel piatto non sapevano di nulla. Che strana salvia era la nostra.
Andò avanti così per settimane tra nodini, tagliatelle e gnocchi deludenti. Finché un giorno, quand'era ormai estate, notai con occhio curioso gli operai comunali armeggiare in un'aiuola vicino al ponte di San Lorenzo, con un camioncino carico di piante che mi sembravano familiari. Ne ho avvicinato uno e vincendo il timore crescente di fare la figura del fesso gli ho chiesto: “Scusi signore, ma quest'anno avete deciso di abbellire la città con la salvia?”. Solo quel giorno ho realizzato che, forse per uno scambio di biglietti, in casa nostra avevamo mangiato per due mesi paste condite con burro e una specie di lavanda. Se non altro non era velenosa.

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14 febbraio 2008

I tempi dell'amore

In un giorno di San Valentino di molti anni fa eravamo lì in sala, con gli occhi incollati allo schermo, a seguire le vicende della giovane Rose, ragazza dell'alta società inglese che si innamora del giramondo squattrinato Jack Dawson, salito a bordo del Titanic grazie a un biglietto vinto a poker. Stavamo lì a guardare quell'improbabile passione che sfida le differenze di classe, chiedendoci come avrebbe reagito il fidanzato di Rose, il giovane, ricco e cattivo Caledon che le era stato imposto dalla madre. Facevamo il tifo per i due ragazzi innamorati, cullati dal vento dell'oceano e dalle note di Celine Dion, quando dietro di noi - saranno state due o tre file più indietro - si è fatta largo una vocina di bambino, dal timbro annoiato, forse addirittura esasperato per la stanchezza di seguire per ore le vicende sdolcinate dei due passeggeri invece di arrivare al punto vero del film: "Papa!" disse la voce. "Ma quando affonda???".

Tutto questo solo per dirvi di andare a vedere questo video (vale solo per oggi, San Valentino) in cui ho infilato anche due immagini di Titanic. E a tutti quelli - già me l'immagino - che storcono il naso ogni volta che parlo di questo kolossal del cinema americano, consiglio di leggere questa pagina per imparare qualcosa sulla più grande follia del cinema.

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03 febbraio 2008

In fuga con il bancomat

nelle terre estreme
Poiché il giudizio degli altri mi fa sempre un certo effetto non ero mai andato al cinema da solo: qualcuno potrebbe pensare che non c'è nessuno al mondo che mi voglia accompagnare. Comunque lunedì scorso – ore 21 e 30 – non avendo altra scelta ho vinto i miei timori e mi sono presentato all'ingresso del cinema Astra, solo come un cane. Essendo in anticipo mi sono fermato al bar dove ho ordinato un latte macchiato: grave errore perché la scelta inconsueta ha attirato occhi curiosi su di me, lo spettatore solitario, almeno così mi sono sentito.
Credevo che mi sarei ritrovato solo pure in sala, con la possibilità di cambiare posto a piacimento e di allungare le gambe davanti e di lato. Ero arrivato addirittura a sentirmi in colpa pensando al povero proiezionista che a causa mia avrebbe dovuto fare le ore piccole. Invece mi sono scoperto assieme ad altre 150 persone, nemmeno un posto libero, per un film che sarebbe durato fin dopo mezzanotte. Tutti assieme, di lunedì, per guardare sul grande schermo la storia di Chris McCandless, alias Alex Supertramp, ventenne americano che nel 1992 caricò uno zaino con pochi indumenti, qualche attrezzo, alcuni libri, un sacco di riso e disse addio alla civiltà diretto verso il Grande Nord. Il giorno dopo ancora tutto esaurito e così ogni sera tanto che il padrone del cinema conta di tenere la pellicola in programma per due o tre settimane come succede ormai sempre più di rado.
Non è per le immagini splendide dell'Alaska e nemmeno per ascoltare la colonna sonora di Into the wild che centinaia di giovani si presentano in sala con il biglietto in mano. Forse è perché il libro da cui è tratto il film (enormemente superiore alla pellicola) all'epoca ebbe un gran successo ma è soprattutto un particolare a raccogliere gli spettatori in quella sala: il giovane protagonista di questa storia vera è un uomo in fuga, eroe di una generazione che fuggirebbe molto volentieri.
Fugge (almeno nelle intenzioni) chi pensa di sfruttare al contrario le differenze tra nord e sud del mondo per vendere la casa e vivere di rendita in qualche paradiso, dopo essersi vaccinato contro colera e febbre gialla. Tutto sommato fugge chi compra un camper e lascia la città appena può anche se deve tornare al lavoro il lunedì, almeno per pagare le rate della sua enorme casa viaggiante con televisore, frigo e garage sul retro. E' una fuga dai ritmi del lavoro quotidiano quella di chi molla tutto e apre un agriturismo (nella versione più moderna un bed&breakfast) salvo scoprire che i lavoratori in proprio, a parte qualche eccezione, faticano più dei dipendenti. C'è infine chi passa l'intera vita progettando di fuggire (da solo o in compagnia) ma dopo anni trascorsi in attesa del grande momento lascia perdere perché la vita l'ha cambiato.
Non svelo un segreto (e quindi non tolgo la sorpresa a chi ancora non conosce questa storia) se dico che Chris McCandless è morto durante la sua fuga proprio mentre cercava di tornare al mondo: Jon Krakauer, il giornalista-alpinista che ha ricostruito gli ultimi mesi di vita del ragazzo, lo scrive alla quinta riga del suo libro “Nelle terre estreme”.
Nell'andare al cinema, anche da soli, c'è di buono che durante la proiezione e poi più tardi, quando si accendono le luci, si sentono i commenti degli altri spettatori: c'è chi vede in quel ragazzo che voleva vivere di ciò che gli offriva la Natura un idealista da cui trarre ispirazione; c'è chi lo considera un incosciente con tendenze al suicidio che ha gettato al vento la sua esistenza. Ma dalla sala è salito un mormorio unanime quando Alex Supertramp (a quel punto usava già il suo nuovo nome) ha preso i 24 mila dollari che teneva sul conto in banca, i risparmi per l'università, e li ha infilati in una busta indirizzata a un istituto contro la fame nel mondo. Infine ha acceso le banconote che gli erano rimaste in tasca e ne ha fatto un piccolo falò sull'asfalto della strada maestra, poco prima di lasciarla. Una scena dedicata a tutti noi: uomini in fuga con la tessera sanitaria e il bancomat in tasca.

P.S. nella foto la mia copia di "Nelle terre estreme", personalizzata dalle macchie di the e caffè distribuite tra le pagine, chiaro indizio che questo libro è tra quelli che mi sono piaciuti molto.

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20 gennaio 2008

Appena fuori dalla pista

sciatori in coda alla seggioviaLo sci è uno sport complicato. Se non c'è la neve storciamo il naso perché scendere sulla neve artificiale – con le margherite a bordo pista – non è la stessa cosa. Quando nevica storciamo il naso perché non si vede più in là della punta degli sci e le piste non sono lisce come le vorremmo. Così attendiamo per settimane il giorno giusto, con la neve fresca e il sole in cielo. Oggi è quel giorno e per di più è domenica, così ci sveglieremo presto – prima che arrivino i turisti con l'autostrada – e giunti in quota troveremo il parcheggio già mezzo pieno, con quell'odore di smog che i nostri figli hanno imparato a conoscere: scenderanno dall'auto, respireranno l'alito fetido di un pullman cecoslovacco e sorrideranno perché sentiranno che l'aria buona di montagna non è poi così diversa da quella di città.
Quindi ci metteremo in coda allo sportello per acquistare lo skipass magnetico, sapendo che se proveremo a venderlo a metà giornata (come facevamo una volta) rischieremo di trovarci in tribunale. Quando la signorina ci chiederà se vogliamo pagare anche la polizza assicurativa saremo tentati di dire “sì”, ricordandoci di quel tale finito in rovina per aver investito un avvocato rompendogli una gamba. Poi saliremo sugli impianti (seguendo alla lettera il regolamento, altrimenti verremo richiamati all'ordine) e ci ritroveremo in pista attenti a dare la precedenza allo sciatore a valle, rallentando prima degli incroci e fermandoci solo a bordo pista come prevede il decalogo del buon sciatore.
Che nessuno del gruppo provi a dare lezioni al collega d'ufficio perché qualche maestro potrebbe vederlo e denunciarlo per esercizio abusivo della professione. Incontreremo i cartelli che ci vieteranno di scendere fuori pista e anche volendo sarebbe difficile proseguire oltre perché ci sono reti rosse dappertutto e saremo terrorizzati solo all'idea di affondare lo scarpone nella neve vergine (dove non è nemmeno passato un gatto delle nevi!) senza avere l'Arva nella tasca della giacca e una pala piegabile infilata nello zaino. Ogni tanto qualcuno alzerà lo sguardo verso il cielo e vedrà l'elicottero del pronto soccorso che non smette mai di volare per portare i feriti dalle piste all'ospedale.
A metà giornata – dopo mezz'ora di coda a ginocchia piegate, con le gambe flesse negli scarponi – troveremo buono persino il cibo del self service che ci ricorderà, chissà perché, quello della mensa aziendale. Per consolarci ci concederemo un bombardino sperando di non trovare le forze dell'ordine pronte a misurarci il tasso alcolico con l'etilometro, come volevano fare in Alto Adige. Sempre meglio che a Cortina dove i poliziotti l'anno scorso hanno sperimentato lo skivelox, pronti a dare le multe senza però togliere punti dalla patente.
Usciti dal ristorante da 200 posti cercheremo gli sci nuovi nell'enorme rastrelliera (sperando che non ce li abbiano fregati) e stanchi di attendere fuori dal bagno intasato ci avvieremo ai confini del comprensorio sciistico per trovare un albero libero e fare la pipì. Sarà in quel momento che sentiremo sotto gli sci un rumore nuovo, che la neve battuta non è in grado nemmeno di imitare. Sentiremo farsi più lontani i ronzii delle seggiovie, fino a scomparire, e si farà da parte anche la musica sparata dagli altoparlanti del rifugio. Scopriremo con stupore – dopo aver sciato distrattamente su e giù dalle vette per chilometri – che nel manto immacolato può essere un'impresa ardua anche percorrere cinquanta metri. Ma quando saremo di fronte all'albero prescelto vedremo due tipi strani – un ragazzo e una ragazza – con un paio di ciaspole ai piedi invece degli sci, tanto coraggiosi da avventurarsi sulla neve con un berretto di lana al posto del casco, lasciandosi dietro una fila di larghe impronte che si perdono nel bosco, su un pendio lieve che non induce in tentazione le valanghe. Li guarderemo dividersi un panino seduti l'uno accanto all'altro sulla panchetta di una baita, con il viso rivolto al sole, gli occhi chiusi e le maniche del maglione rimboccati fino al gomito. In quel momento – scordandoci di quello che dovevamo fare in quell'angolo vicino alle piste, ma che sembra un altro mondo - penseremo, forse, che hanno ragione loro.

P.S. notate quante persone fotografate in coda alla seggiovia indossano il casco... quella macchia bianca che si vede in basso, invece, è la punta del mio berretto di lana...

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31 dicembre 2007

Chi la spara più grossa

capodanno molotovSi narra che in una valle dolomitica ai confini fra Veneto e Trentino si combattano in notti come questa battaglie a suon di botti in cui vince chi la spara più grossa, come avviene del resto anche in altri settori. L’appuntamento è per questa sera, ore 24 circa, con qualche anticipo giusto per scaldarsi, quando dalle baite disperse tra i pascoli a 2 mila metri di quota partiranno petardi e razzi che poi lasceranno il posto a bombe in piena regola. Chiariamo subito un concetto: per far casino in un vicolo cittadino ci vuol poco, come sa bene ogni monello. Basta gettare un “raudi” in un cassonetto per far credere a chi dorme lì sopra che siamo entrati in guerra. Per ottenere lo stesso effetto in alta quota, tra i pascoli aperti e le pareti di roccia ben lontane, ci vuole tutt’altro impegno.
Dirò quello che ho visto, anzi sentito. Correva l’anno 2000, o giù di lì, quando mi ritrovai da quelle parti ospite del proprietario di una baita, con l’accordo che lui avrebbe pensato al cibo e io avrei provveduto ai botti. Per fare bella figura filai dritto in armeria (scartando senza indugio cartolerie e negozi di giocattoli vari) dove scoprii che per andare sul sicuro bisognava investire in esplosivo un terzo della tredicesima. E così feci.
Con il bagagliaio pieno di armamenti (tutta roba legale, intendiamoci, benché proveniente dalla Cina) mi presentai alla baita all’imbrunire impaziente di dar fuoco alle micce. A mezzanotte in punto feci partire un razzo, quindi i miei onesti fuochi e infine - io, ardimentoso fuochista, certo di avere su di me gli occhi della valle, soprattutto quelli delle donne - seguendo alla lettera le istruzioni accesi il pezzo forte: una specie di mortaio da cui partiva un cipollone che poi esplodeva in cielo facendo piovere una pioggia di scintille colorate. Niente male, mi dissi, e soddisfatto, mi ritirai per il brindisi mentre dal basso mi raggiungeva un tonfo sordo che chiarì subito a tutti cos’erano i botti che avevamo sentito fino a quel momento: umili scoregge.
Un altro boato arrivò dall’altro lato della valle e poi un altro, con un botta e risposta che continuò a lungo. Mi spiegarono che a fronteggiarsi c’erano - come sempre - due rivali montanari che avevano condiviso, probabilmente, lo stesso curriculum dinamitardo: entrambi appartenevano alla categoria di quelli che già all’asilo facevano scoppiare le miccette, quelle rosse in vendita nella scatoletta da cinquanta. Solo che loro - per distinguersi - le tenevano fra le dita durante l’esplosione. Crescendo avevano amplificato la potenza dei petardi più seri - parliamo di “raudi”, “mini ciccioli” ma soprattutto “magnum” - facendoli scoppiare nelle lattine vuote di birra, quindi nelle bottiglie e infine, non contenti, si erano avviati alla carriera di bombaroli acquistando botti regolari solo per aprirli, recuperare la polvere nera e utilizzarla - parole loro - in modo serio, ad esempio compressa all’interno di tubi arrugginiti. Poi trovarono altri canali di approvvigionamento che qui non posso scrivere, soprattutto perché non li conosco.
Comunque, stavo lì umiliato ad ascoltare i due vicini che si “scambiavano gli auguri” finché sentimmo il terreno vibrare forte mentre un lampo illuminava il cielo: «Carburo» disse qualcuno che aveva l’aria di saperla lunga.
Poi altri botti, che potevano essere delle fucilate in serie (da quelle parti, si sa, è pieno di cacciatori) e infine circolò la voce che come sempre accade fu la moglie di uno dei due a mettere termine alla sfida, impedendo al marito di far saltare con una pallottola la bombola del gas oppure - come già aveva minacciato l’anno prima - di tirar fuori dal fienile quella riserva mitica di tritolo, su cui da anni in paese correvano strane voci.
Attorno all’una di notte tornò il silenzio e io pensai: «L’anno prossimo farò di meglio». Invece rimasi fermo al mio livello, mentre ai due professionisti - così dicono le voci - toccò di fronteggiarsi da un letto all’altro di una stanza d’ospedale.

P.S. volete avere un'idea dei botti che si possono ottenere con il carburo? date un'occhiata QUI

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23 dicembre 2007

La mia lista di Natale

lista di natalePer non restarne vittima ho deciso di affrontare il Natale con professionalità. Così, con largo anticipo, mi sono seduto al tavolo di fronte a un foglio bianco e ho cominciato a compilare la lista di cose da fare entro il 25 dicembre, anzi entro il 23 per non avere brutte sorprese e garantirmi un margine di recupero in caso di emergenze.
Per cominciare al meglio ho usato lo sporco trucco di inserire in cima alla lista un compito già eseguito, quindi ho scritto "albero" e "presepe" e poi - con il morale alle stelle - li ho cancellati al volo tirandogli sopra una riga e me ne sono andato a letto soddisfatto.
Il giorno successivo - e quelli dopo ancora - mi sono concentrato sulla programmazione delle incombenze deciso a mettermi in azione solo quando avrei avuto un quadro completo della situazione. Ma riga dopo riga di fronte a quel listone in crescita, con il Natale che si avvicinava pericolosamente, è cominciata a salirmi un'ansia, anzi un'angoscia che mi prendeva al mattino, appena sveglio eppure già schiacciato dagli impegni che mi ero assunto di fronte al grande evento.
Era giunto il momento di mettersi in moto: accusando le Poste di ritardi e inefficienze ho tirato una riga sulla voce biglietti d'auguri e mi sono sentito molto meglio. Ricordandomi che avevo due regali da riciclare ho dimezzato il parco doni pronto a passare ai punti successivi. Con un'occhiata alle previsioni meteo ho deciso che non era necessario (ancora) montare le gomme da neve sull'auto e con grande soddisfazione ho tirato un'altra riga.
I passi successivi sono venuti di conseguenza: sono sopravvissuto alla cena aziendale (via un'altra riga); mi son detto che quel tizio che ogni tanto mi allunga una notizia potevo salutarlo anche dopo le feste e ho cancellato il suo nome dalla lista; calcolando che noi giornalisti a Natale stiamo a casa appena due giorni ho tirato un po' di righe sui libri che mi ero proposto di leggere e sopraffatto dalla quantità di richieste di denaro che varie associazioni mi avevano spedito ho risolto il problema gettandole nel fuoco e conquistando in un sol colpo cinque righe della lista, dopo una strenua lotta contro i sensi di colpa che mi ha lasciato indebolito.
Volevo andare a fare gli auguri al presidente perché mi hanno detto che a palazzo i giornalisti ricevono il regalo di Natale ma quel giorno ero impegnato fuori dal palazzo e mi sono consolato con una voce in meno sulla lista. Infine ho astutamente delegato a un altro ramo familiare la gestione del cenone di Natale, inviti compresi, disponibile a qualsiasi acrobazia parentale anche per il pranzo ("fate di me ciò che volete") pur di poterci tirare sopra un'altra riga.
Restava il punto dolente: scrivere un "fdp" sul Natale, così li chiamo io i "fuori dal palazzo" quando ne parlo con i colleghi. Due anni fa m'ero salvato perché per un calcolo dei festivi il giornale di domenica non usciva, l'anno scorso la feci franca perché eravamo in sciopero, quest'anno non c'è scampo ma ad occhio e croce tra una trentina di righe potrò considerare esaurito anche questo compito e traccerò l'ultima riga della lista che mi ha rovinato metà dicembre e che si è rivelata inutile, zeppa di incarichi buoni solo a togliere il sonno ma talmente trascurabili da cadere (irrisolti) sotto un tratto di penna senza che il mondo se ne accorga.
In anticipo di due giorni, con questo foglio scarabocchiato (che poi sarebbe la mia lista) a prendere fuoco nel camino posso finalmente rilassarmi e pensare alla mia ultima incombenza, l'unica che veramente mi sta a cuore tanto che per tenerla a mente non l'ho dovuta scrivere su un pezzo di carta. Ognuno di noi di cose così a Natale ne ha almeno una: tutte diverse, grandi e piccole, per noi molto importanti. Basti sapere che il tempo guadagnato gettando via la lista servirà per preparare un regalo di Natale al mio bambino, uno di quelli che non si comprano nei negozi e che richiede un minimo di impegno. Che nessuno tra le vittime delle mie righe, sapendo questo, si senta trascurato.

P.S. Buon Natale a tutti!

P.S. C'era un'altra cosa che mi stava a cuore dire ma l'ho scritta sulla Città invisibile.

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27 ottobre 2007

Un'ora sola (io) vorrei...

ora legaleC'erano anni in cui l'annuncio di riportare le lancette un'ora indietro evocava notti prolungate (possibilmente tempestose) da godere a letto preferibilmente consapevoli, nel dormiveglia mattutino, del caldo regalo guadagnato in primavera quando quell'ora andò sacrificata.
Di quell'ora ognuno fa ciò che vuole: i bimbi ignari non se n'accorgeranno, i ragazzini apriranno gli occhi di buon mattino e si gireranno (per una volta) dall'altra parte soddisfatti, gli innamorati godranno un'ora d'amore che sembrerà (ahimé) un minuto, i viventi della notte faranno l'alba attraversando in un baleno la notte più lunga dell'anno mentre i macchinisti del treno, fermi sul binario morto di una piccola stazione, priva di bar e servizi igienici, malediranno la sorte che fa cadere sempre il loro nome in quel turno maledetto che prevede sessanta minuti d'attesa prima che venga l'ora di (ri)partire.
Si potrebbe giocare - in una notte come questa - ad inventare la macchina del tempo, togliendo le pile all'orologio per vivere un'ora che in realtà non è mai esistita, magari per trascorrerla al telefono con una persona lontana per ascoltare insieme vecchie canzoni. E invece no: andremo a letto all'ora solita e senza accorgerci che il tempo si è fermato ci sveglieremo all'alba (anzi, un'ora prima) quando il piccolo demonio, che ancora degli orologi non ha capito l'utilità, guarderà dalla finestra e deciderà (come dargli torto?) che giunta è l'ora di giocare perché sono le cinque del mattino (altro che dormire!).
Giochi, sesso, carezze chiacchiere o sane dormite: qualunque uso si faccia di quest'ora regalata, tutti possiamo riflettere sulla possibilità artificiosa - ma reale - di fermare il tempo che fugge implacabile tenendo ferme le lancette con un dito, seduti sulla poltrona più comoda che c'è in soggiorno.
Come quella vecchia di montagna (che poi era mia nonna) abituata a vivere in una stanza dove l'unico cambiamento giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese era l'inclinazione del sole che attraverso le tende misurava tempo e stagioni. Un pomeriggio di novembre - noi soli - ascoltavamo alla televisione notizie di stragi, attentati, crisi economiche e politiche. Lei si alzò dalla sedia, fece due passi malfermi e con un mezzo sorriso tolse la corrente elettrica all'apparecchio: "Spengo la televisione - disse - guardo dalla finestra e so che nulla è mai accaduto".

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15 ottobre 2007

Emergenze domestiche

Altro che Icef, frane dolomitiche, studenti ubriachi e sacerdoti gay. Ci sono momenti nella vita in cui tutto passa in secondo piano per affrontare un'emergenza vera, che pretende attenzione ed energie per essere superata senza danno: abbiamo un topo in casa. L'abbiamo scoperto l'altro giorno quando prendendo un sacchetto di pasta dalla soffitta che usiamo come dispensa ci siamo accorti che era un po' troppo leggero e che sul fondo c'era un buchetto rosicchiato con perizia. Ognuno ha il topo che si merita: il nostro è un topo buongustaio perché si è mangiato due pacchi di De Cecco ignorando la Barilla. Ma questi suoi gusti raffinati non basteranno a farlo salvo. Così dopo un rapido consulto (erano anni che tra amici non si discuteva su un tema con tanta passione e diversità di opinioni) sono corso in quel negozio di via Rosmini (dove già mi ero rivolto quando avevo problemi di formiche) per confessare tutta la mia angoscia: «Aiuto! Ho un topo in casa!». Tranquillo - mi ha risposto il giovanotto che stava dietro il banco - sapesse quanti ne arrivano qui agitati come lei. E mi ha guidato vicino a uno scaffale dove c'era tutto quello di cui avevo bisogno. Da un rapido esame degli escrementi (senza bisogno di inviare campioni al Ris di Parma per il test del Dna) abbiamo stabilito che il mio topo è un topolino di campagna e va quindi avvelenato, visto che la mia è una casa di città. Ma prima di passare all'azione mi sono voluto togliere un dubbio: «Scusa tanto, ma come ci è arrivato un topolino in una soffitta al quarto piano per di più senz'ascensore?». Signore mio - è stata la risposta - non c'è nulla di cui stupirsi, lo sa che c'è gente che ha visto i topi arrampicarsi su muri verticali come se fossero lucertole? Quando si tratta di caccia - l'ho capito perfino io - il confine con la leggenda si fa sempre più sottile.
Chi crede che avvelenare un topo sia un compito facile farà bene a leggere oltre. Primo: non bisogna toccare le esche con le dita altrimenti il topo - che ha il cervello piccolo ma non è stupido - diffiderà e continuerà a mangiare la pasta. Secondo, bisogna stare attenti che nessun altro in casa - animali domestici o bambini - faccia la fine che vogliamo fare al topo. Risolti questi due problemi ho piazzato due esche ai lati opposti della soffitta e me ne sono andato a letto. Verso le tre di notte - colto da un presentimento - sono corso in soffitta per scoprire che il veleno era scomparso. Ovvio - si dirà - c'era il topo. Ma le sparizioni fanno comunque un po' impressione. Sono tornato a letto pensando: ora morirà. E senza riuscire a prendere sonno immaginavo quel topo colto da inspiegabili (per lui) emorragie interne cadere stecchito tra le tegole del tetto cercando all'aperto un impossibile sollievo alla sensazione di soffocamento provocata dal veleno. E poi - dicono le istruzioni - finirà mummificato: potenza della chimica, povero topino.
Il giorno successivo mi sono alzato e giusto per scrupolo ho piazzato un'altra esca e un'altra ancora. A mezzogiorno ho verificato che cosa stava accadendo lì dentro (sempre per scrupolo) e ho scoperto - orrore - che erano sparite un'altra volta. Altra esca: sparita. Altra esca: sparita. Così, in preda all'ansia, sono corso al negozio e senza mezzi termini mi sono lamentato: «Il mio topo mi sta prendendo per il culo, prende il veleno ma non muore». Dopo un breve consulto (durante il quale il topino di campagna è diventato un ratto, vista la facilità con cui trasporta i sacchettini velenosi) abbiamo capito qual era il problema: dopo essersi abbuffato di pasta al grano duro quel topo maledetto sta facendo scorte per l'inverno. Porta il veleno nella tana e credendolo una leccornia lo tiene da parte perché è un tipo previdente. Quindi morirà - forse - durante il cenone di Natale. Per il momento me lo tengo e penso con rimpianto a tutte le volte che ho scacciato il gatto dei vicini che veniva a fare la pipì sul gelsomino della mia terrazza e - stanco di essere preso a male parole - non si è fatto più vedere. Un gatto in casa, credetemi, non serve solo a fare le fusa. Ma queste sono saggezze che abbiamo ormai dimenticato.

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30 settembre 2007

Il nonno di Heidi

Può capitare che due genitori fuori moda e fuori dal tempo facciano vedere Heidi al loro figliolo, invece di Nemo o Winnie the Pooh, perché quel cartone animato d'altri tempi non l'hanno mai dimenticato.
Può capitare che un bambino di due anni, a forza di guardare Heidi, immagini un mondo fantastico dove i monti sorridono, le caprette fanno ciao e d'inverno si va a scuola con la slitta.
Può capitare che in un sabato d'autunno i due genitori fuori moda carichino in auto il piccolo pastore promettendogli una giornata memorabile perché andranno in montagna a vedere Heidi, Peter, il nonno di Heidi, le mucche e le caprette che scendono a valle dopo un'estate trascorsa in cima ai monti.
Può capitare infine che il piccolo, di fronte a tale promessa, si addormenti felice sognando i campanacci delle mucche e si risvegli ai margini di un prato di montagna, in mezzo a una piccola folla di turisti, mentre giunge da lontano (ma sempre più vicino) l'inconfondibile "din-don" che annuncia l'arrivo di una mandria. Ed è lì - mentre le mucche sfilano chiassose agghindate a festa con i fiori colorati appesi attorno al collo - che un grido acuto attira l'attenzione del pubblico che smette, ma solo per un attimo, di pigiare i pulsanti delle macchine fotografiche: "Nonno Heidiiiiii!". I turisti ridono (c'è ancora qualcuno che crede alle favole) e si chiedono chi possa essere quel nonno invocato a pieni polmoni da un bambino di città.
La sfilata continua. Ci sono le vacche bianche del passo San Pellegrino che ondeggiano come ballerine di cabaret con una gigantesca stella alpina appesa sopra il capo. Ecco le mucche della provincia autonoma di Trento con lo stemma dell'aquila agganciato in mezzo agli occhi, quelle di Agordo con enormi campanacci che risuonano potenti nella piana di Falcade. Ma il piccolo cittadino non si arrende (è troppo giovane, ancora non sa cosa sia lo scherno) e richiama l'attenzione su un vecchio che là in fondo (perché nessuno l'ha notato?) accompagna le sue bestie bilanciando il peso sugli scarponi da montagna stretti nei lacci rossi: "Nonno Heidiiiiiiii!". I turisti lagunari, giunti in quota la mattina e decisi a tornare a casa prima che cominci il campionato, si danno di gomito: Heidi, chi se la ricorda più? Ma lui no, il vecchio dell'Alpe, prende sul serio quel richiamo, affida le bestie al suo giovane pastore e si avvicina alla folla con quegli scarponi dalla suola grossa, la camicia pesante a scacchi e il cappello di lana cotta verde, proprio quello che fa storcere il naso alle cameriere del bar giù in paese quando si presenta a bere un bicchiere. Ma oggi no, questo è il suo giorno e il vecchio con quella sua barba bianca (è proprio lui!) si fa largo tra la gente per vedere chi lo chiama. Ed è in quel preciso istante che da là sotto, in mezzo a tutte quelle gambe, parte il terzo richiamo ancora più disperato: "Nonno Heidiiiiiii". Allora lui, il vecchio dell'Alpe, proprio quello che in città raccontava le storie di montagna dipinto sullo schermo del computer, solleva quel bambino biondo come se fosse un agnellino e se lo prende in braccio: "Ciao - gli dice - vuoi salire sulle mucche?". Il piccolo è dubbioso, non dice più nulla, fa di no con la testa, troppe emozioni, bisogna pur tenersi qualcosa per la prossima volta, studia il nonno di Heidi come se lo vedesse per la prima volta, lo guarda fisso negli occhi rugosi, è questione di un attimo, appena il tempo di scattare QUESTA FOTO.

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16 settembre 2007

Il piccolo demonio

Ogni albergo, ristorante, bar o pizzeria che si rispetti ha la coppia con figli che fa passare la voglia di avere figli alle coppie che figli ancora non ne hanno. La settimana scorsa all'hotel Hohe Gaisl noi eravamo quella coppia.
Quello che è andato in scena è uno spettacolo già visto di cui conosco il copione in ogni sua variante. Sua maestà il piccolo playboy - l'attore protagonista di questa commedia di cui è autore, regista, sceneggiatore e soprattutto tecnico del suono - si è presentato sul palco dell'albergo altoatesino indossando il suo costume preferito, quei pantaloni di cuoio tirolesi che gli sono valsi subito le simpatie del numeroso pubblico tedesco. Capelli biondi, occhi azzurri, guance rosse è stato accolto da complimenti e sorrisi compiacenti, con quella strana luce che ho imparato a leggere negli occhi delle donne e che su per giù vuol dire nostalgia (se sono troppo vecchie), insofferenza (se sono troppo giovani) o grandi aspettative (se hanno l'età giusta).
Per farla breve il grande show è iniziato all'ora di cena quando il piccolo è salito in piedi sulla sedia con una fetta di speck in mano per farla ammirare a tutti prima di non mangiarla. Oh che bel bambino, si è lasciata scappare una che avrebbe avuto l'età giusta ma era lì con il marito sbagliato, ignara di quello che stava per accadere.
Noi invece sapevamo, e attenti ad evitare guai peggiori (tipo che tirasse l'acqua alla cameriera, colpevole di avergli portato un bicchiere con i manici a lui che ormai è grande e vuole bere a canna) l'abbiamo lasciato libero di scorazzare dalla sala da pranzo all'angolo dei giochi al grido di Heidi, Peter, nonno, caprette, beee, muuuu e din don fa la campana.
Senza trovare complici nei figli dei tedeschi, il piccolo playboy ha continuato lo show snobbando il cibo (mangiare: che gran perdita di tempo) e quel bicchierone di latte che una cameriera premurosa gli aveva portato nel tentativo disperato di calmarlo, probabilmente dopo averci messo una dose di valium di propria iniziativa.
All'improvviso, durante una delle sue incursioni fra i tavoli più appartati, il piccolo demonio è riuscito nella sua specialità: inciampare nelle fughe fra una piastrella e l'altra cadendo a testa in giù, tenendo le manine dietro la schiena per non rovinare l'eleganza del suo volo. Ho sentito il toc della fronte che batteva contro la pietra e ho iniziato il conto alla rovescia per capire quando sarebbe arrivato lo strillo, puntuale come un tuono dopo il fulmine. Ci avrà messo tre o quattro secondi, roba da grandi occasioni, ma infine è arrivato: un acuto lancinante che ha riempito le volte della sala gotica abituate a chiacchiere sommesse.
Un signore dall'aspetto distinto mi ha preceduto nel soccorso rassicurandomi: tranquillo, sono un medico. Ma io l'ho zittito al volo: tranquillo sarà lei, io sono il padre. E ho buttato lì la mia diagnosi: tutta scena, lo conosco, non ha niente. Il piccolo ha sentito gli occhi su di sé e si è giocato le sue ultime carte in un esaltante gran finale: ha chiamato nonna una signora che ci è rimasta molto male (facendo sbellicare dalle risate i suoi amici), ha tirato giù una tovaglia con i piatti che c'erano sopra nel tentativo (fallito) di non cadere un'altra volta e infine si è esibito nella colonna sonora dei tre porcellini cantandola a "miao miao" come solo lui sa fare. La cena è finita quando la proprietaria di un giovane labrador ha lasciato la sala con il marito sotto braccio e lo sguardo di chi pensa: caro, per fortuna noi abbiamo un cane.
Noi invece ci siamo raccolti il figlioletto e ce lo siamo portati in camera dove è crollato esausto. E' stato lì che nel cuore della notte, quando nell'albergo si sentiva solo il ronzio della caldaia e qualche scarico d'acqua lontano, quando anche il titolare aveva spento la luce e in cucina regnava il silenzio più assoluto, è stato in quel momento che un grido ha squarciato l'oscurità totale dei duemila metri di quota, più forte della sirena anti incendio di quell'edificio costruito interamente in legno. Era lui, in piedi sul letto, il volto contratto e i pugni stretti che urlava a pieni polmoni: laaaaatte!

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11 settembre 2007

I volti di mille bambini

C'è un posto in città dove ci sono le foto di quasi mille bimbi appese alle pareti. Chi apre la porta incontra una cornice in vetro con una ventina di piccoli che sorridono all'obiettivo. Lungo il corridoio eccone un'altra, un'altra e un'altra ancora, ciascuna piena di fotografie felici. Chi ha la pazienza di entrare in una stanzetta separata scopre dieci nuovi quadri con duecento piccole fotografie di bimbi sorridenti che guardano il visitatore, alcune con il nome e la data scritti sopra. Quel posto è il reparto di ginecologia dell'ospedale Santa Chiara ma questa storia rende meglio se lo si chiama - come una volta - il reparto di maternità.
Cominciò una madre, vent'anni fa, a portare alle ostetriche una foto di suo figlio per ringraziarle di averla aiutata a mettere al mondo il bimbo. Saranno stati gli anni Ottanta, nessuno lì dentro se lo ricorda più, ma quella foto ne ha chiamate tante altre e l'altro giorno mi sono tolto lo sfizio di contarle: sono quasi mille. E altre ancora attendono in un cassetto di essere appese.
Per l'infanzia sono tempi cupi. Le foto di bambini evocano notizie di abusi, denunce, sequestri di computer e arresti. Può capitare addirittura che un padre debba chiedere il permesso per filmare il proprio bimbo all'asilo o a scuola mentre gioca con i compagni, non sia mai che gli altri genitori non siano d'accordo. Ma lì dentro no: nel reparto di maternità dell'ospedale Santa Chiara i bimbi sorridono sereni e non c'è privacy che impedisca di osservare - ammirati - i bimbi altrui.
Sono soprattutto gli uomini a guardare quelle foto e i motivi sono due. Primo: le donne lì dentro hanno molto altro da fare che stare sul corridoio a passeggiare avanti e indietro. Secondo: gli uomini scoprono solo all'ultimo momento che al mondo esistono anche i bambini, quando ormai è ora di occuparsene. Così devono recuperare il tempo perduto e con l'occhio attento dello scienziato scoprono da quelle foto come sarà la loro vita.
Ci sono i bimbi più piccoli sdraiati sul fasciatoio con lo sguardo perso nel vuoto, quelli più grandi fotografati al mare con la paletta e il secchiello, ci sono i fratelli maggiori con lo sguardo smarrito e preoccupato che tengono stretti gli ultimi arrivati (perché così gli hanno detto di fare), ci sono le foto di Natale con i bambini sotto l'albero (alcuni vestiti da babbo natale, poveretti) e c'è una foto che fa tirare un sospiro di sollievo a tutti gli altri genitori che ingannano l'attesa davanti a quella galleria: è quella in cui ci sono cinque bimbi identici, seduti l'uno accanto all'altro su un divano in cui da quando sono nati non c'è più posto per nessuno.
In quelle foto si legge una realtà trentina fatta di gite in montagna e compleanni festeggiati in giardino. Nelle immagini degli ultimi anni c'è anche qualche bambino colorato, con la madre che ha voluto partecipare all'usanza collettiva come per dire: eccoci qui. E a tutti quelli che pensano che sia il mondo esterno (e non i geni) a fare di una persona ciò che è, consiglio di guardare negli occhi quei bambini che a pochi mesi d'età, senz'aver visto il mondo, hanno già una storia da raccontare. La mia foto lì dentro non c'è (perché sono nato altrove e comunque all'epoca non c'era quest'abitudine) ma non mi dispiacerebbe che ci fosse per raccontare assieme a tutte le altre immagini la storia della nostra città.
Quella galleria di mille foto al terzo piano dell'ospedale Santa Chiara mi aveva già colpito a tempo debito, quando fu il mio turno di presentarmi - padre trafelato - in quel reparto. Sono tornato lì dentro l'altro giorno. Provenivo da un reparto in cui si muore, dov'ero andato per motivi di lavoro, e volevo tirarmi su il morale con una visita nel posto in cui si nasce: funziona.
Nessuno ha avuto niente da ridire quando mi sono messo a contare le foto senza riuscire a trattenere, di fronte a qualche immagine, una risata. Confesso che ho barato: non sono ancora mille, per fare cifra tonda ne mancano almeno un centinaio. Così sono uscito di là determinato a portare al più presto alle ostetriche una delle nostre foto di famiglia, per contribuire a far crescere in città quella gigantesca galleria dove la privacy non esiste e i bimbi ridono felici.

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26 agosto 2007

La coda comunista

E' in giornate come questa, dette dell'esodo, che il signor Luigi G. si alza di buon mattino, con l'umore ai massimi livelli, si infila la tuta da lavoro e sale con la moglie sull'auto che lo porterà al suo distributore di benzina: lui alle pompe del carburante, lei dietro il bancone del mini-bar, quello che per l'automobilista è l'inferno per loro è il paradiso. Poiché il signor Luigi G., avendo il distributore poco distante dalla casa in cui trascorro le vacanze, è anche amico mio, ecco a voi in esclusiva il suo pensiero sulle code e sui rientri dalle ferie, materia in cui vista l'esperienza è un grande intenditore: “Prima di tutto – spiega – guardo al portafoglio e so che per coprire la stessa distanza un'auto in coda consuma più di un'auto in corsa, quindi alla pista libera preferisco la colonna ma ho smesso da anni di sentirmi in colpa: chi è causa del suo mal pianga sé stesso e chi si mette in viaggio il pomeriggio di domenica per rientrare al lavoro il lunedì sa a cosa va incontro. Di buono c'è che le code sono democratiche, anzi comuniste: quando comincia a formarsi la colonna d'auto c'è qualche disperato che rischia tutto per guadagnare qualche posizione ma poi si ritrovano tutti fermi lì, uno dietro l'altro, quelli con l'utilitaria carica di nonni e nipoti e quelli che viaggiano in due sull'ammiraglia, anche se mi è sempre rimasto il dubbio che i ricchi veri stiano fuori da questi giri. Poiché vendo benzina (e non posti letto) per me vanno bene anche i camperisti che hanno il serbatoio grande ma presto o tardi passano da me. Poi ci sono i motociclisti: esposti alla pioggia e alle cadute quando c'è la coda mettono la freccia e si prendono la rivincita, tutti tranne i tedeschi che – non li ho mai capiti – restano in fila come se fossero sull'auto. C'è la coda dell'esodo e quella della domenica che si forma la mattina e compare puntuale quand'è sera. Una volta – lo confesso – riempivo un serbatoio dopo l'altro ma un po' ci restavo male: poveri turisti, pensavo, quanti sacrifici devono fare per respirare un po' d'aria buona. Ma anno dopo anno mi sono accorto che a stare in coda sono sempre gli stessi, rassegnati, come se la colonna fosse il male minore. Uno di Milano un giorno mi ha spiegato che queste code dolomitiche sono cose da dilettanti, quasi una vacanza rispetto alle colonne da professionisti che sopporta ogni giorno in tangenziale. Quello di Mestre – lì vicino – faceva di sì con la testa. Dico la verità li capisco poco: fanno il conto al minuto del tempo che trascorrono in ufficio ma dimenticano di calcolare le ore che passano chiusi in auto. Ma i turisti del ferragosto alle code hanno fatto l'abitudine: stanno in coda durante la salita della ferrata (ma è gente di mondo, attaccati al cordino colgono l'occasione per chiacchierare di fondi, azioni e obbligazioni), giunti al rifugio si mettono in coda per la grappa e quand'è ora di tornare, poiché sono stanchi, si mettono in fila per scendere a valle in funivia.
Da un paio d'anni a questa parte sembrava fosse arrivata la rivoluzione: i professionisti della coda tengono in auto il navigatore satellitare che dovrebbe insegnare qual è la strada giusta, quella più corta, quella più veloce e – udite, udite – qual è il percorso alternativo in caso di ingorgo oppure di incidente: so di gente con il camper gigante che si è trovata intrappolata nella strettoia tra due fienili di montagna credendo di aver trovato la scorciatoia giusta”.
Mi pare di vederlo, Luigi G., mentre riempie di benzina le auto dell'esodo con la moglie dietro il banco a macinare caffè. E mi pare di vederlo domani, quando la montagna sarà semi-deserta, il cielo sereno (perché anche il tempo ci prende gusto a sbeffeggiare le masse) intento a girare il cartello di metallo all'ingresso del suo piccolo distributore (lui ha ancora quei vecchi cartelli rumorosi e mezzi arrugginiti) finché si vedrà la scritta chiuso. “Perché – questa è la sua teoria – passo la domenica a servire i turisti ma il vero signore sono io quando il lunedì mattina, passata l'invasione dei vacanzieri, mi prendo il lusso di mettermi di riposo”.

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22 agosto 2007

Palloni gonfiati

Scrivo da una località di montagna per avvisare i lettori di una minaccia che quest'anno, più che mai, rischia di rovinare la vacanza a chi sogna il silenzio, la natura e le tradizioni delle Dolomiti. Scriverò dei parchi giochi, ma non di quegli innocui giardini con lo scivolo, l'altalena e la buca della sabbia a cui abbiamo fatto l'abitudine. No, qui si tratta di immense navi dei pirati e di giganteschi scivoli gonfiabili, alti come una casetta di due piani, che spiccano nel verde dei prati con i loro colori rosa, giallo e blu. Nel paese in cui abitiamo ce n'è uno che esibisce all'ingresso la seguente referenza: “Il più grande parco giochi gonfiabili delle Dolomiti”. Niente meno.
All'inizio ci sembrò una gran fortuna, quella di avere una tale attrazione dietro casa, dove parcheggiare il piccolo e passare un pomeriggio in libertà al prezzo popolare di quattro euro e cinquanta. Ci siamo cascati come polli: quei giganteschi palloni, forse studiati da psicologi dell'età evolutiva per fare colpo sui piccoli turisti, sono diventati il nostro incubo e la parola “giochi” è la colonna sonora della nostra vacanza, urlata con tonalità e intensità diverse a seconda del momento. Giorno dopo giorno guardo con odio l'improvvisato Mangiafuoco all'ingresso del suo baraccone. Forse dovrei chiamarlo pifferaio per l'abilità con cui incanta i suoi giovanissimi clienti e in realtà anche qualche madre: mi chiedo se ha fatto un corso per essere così efficace nel conquistare gli ospiti che varcano la sua soglia e – da quell'istante – fanno di tutto per tornarci. Sono arrivato a sospettare che sia tutta colpa delle caramelle – drogate? - che tiene in un cestino nella casetta in cui stacca i biglietti mattina, mezzogiorno, pomeriggio, sera e notte perché il più grande parco giochi delle Dolomiti non chiude mai e per evitare capricci disperati siamo giunti a cambiare il nostro percorso abituale, prolungando la strada di un paio di chilometri, per arrivare a casa dal retro senza passare di fronte al paese dei balocchi.
Basta, mi son detto, siamo qui per goderci le montagne e non quattro palloni gonfiati: domani si sale in quota. Detto fatto: attraversando un paesino dopo l'altro al grido di “giochi! giochi! giochi!” perché non c'è ormai più località turistica degna di questo nome priva del gigantesco scivolo gonfiabile, siamo giunti ai piedi di un pascolo. “Giù dall'auto – ho ordinato alla mia truppa – si va a a scoprire da dove viene il latte che beviamo la mattina”. C'erano le mucche, le capre, qualche gallina e un paio di maiali ma ugualmente dallo zaino porta-bimbo che tenevo sulle spalle ho udito un urlo lancinante: “Giochi!”. C'erano veramente – dietro il rifugio – un castello delle fate e una casetta di Biancaneve tenuti in piedi da un motorino ronzante che pompava aria a tutto spiano.
“Più su, più su, dobbiamo andare più su” ho ordinato disperato, incamminandomi lungo un sentiero che ricordavo a malapena ma – non avevo dubbi – ci avrebbe portato sulle montagne vere lasciando a valle l'incubo dei giochi.
Un'ora di cammino in salita, a lato di un minuscolo ruscello, tra le tracce di qualche invisibile capriolo (a Ferragosto soffrono la folla e vanno in vacanza pure loro), ci ha portati in cima ad un versante. Ancora pochi passi e saremmo stati lassù, a tu per tu con le pareti pallide di roccia con i segni neri lasciati dalla pioggia e i ghiaioni frantumati l'inverno dai ghiacci. Avrei voluto dire: “Signore e signori, ecco a voi le Dolomiti” invece per prudenza mi sono trattenuto, subito preceduto da mio figlio che dalle mie spalle, in posizione dominante, ha avvistato l'oggetto del desiderio e stanco di caprette e stelle alpine ha cacciato l'urlo più soddisfatto che mai sia risuonato in quelle valli amplificato dall'eco delle rocce: “Giochiiiii!”.
Quando si perde è saggio ammettere la sconfitta: sono qui a 2.000 metri che digito questo articolo sul telefonino, seduto su una panca assieme ad altri padri orgogliosi – saliti in quota in seggiovia - che fotografano e riprendono i loro bambini mentre saltano felici nella pancia di un'enorme Civetta di plastica viola che nasconde alla vista la Civetta vera, fatta di roccia bianca. Che i bambini siano felici non mi sorprende, quel che mi preoccupa è che lo siano i loro padri.

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12 agosto 2007

C'era una volta l'autostop

autostop con le scarpe camperC'era una volta l'autostop, l'attività di chi alza il pollice a lato della strada per chiedere un passaggio. Ci sono tre motivi per fare l'autostop: necessità, voglia d'avventura o sensibilità ambientalista. Poiché un'auto ce l'ho e le avventure un po' mi spaventano è sempre stato per evitare di muovere invano una vettura che mi sono trovato sul marciapiede, con il pollice fuori, sfidando le frecciate di familiari e amici che consideravano il gesto poco dignitoso.
A salire sulle auto altrui si imparano tante cose. Avevo sedici anni quando scoprii che c'è gente che va in giro apposta per dare passaggi ai ragazzini. E non è questione di altruismo. Ne avevo venti quando - sul sedile posteriore di una Mercedes, con un grosso pastore maremmano che mi annusava le parti intime, tale Max - mi resi conto che per i proprietari di cani contano più i quattrozampe dei bipedi che chiedono un passaggio. Ne avrò avuti ventidue quando imparai, in anticipo sui tempi, che l'olfatto dei genitori di un bambino di due anni si disattiva per consentire il viaggio anche quando il piccolo ha il pannolino pieno. Il mio invece funzionava benissimo. A ventitré anni, all'interno di un grosso fuoristrada, mi stupii di come il silenzio di una coppia sposata possa diventare, chilometro dopo chilometro, più violento di una sfuriata.
Ma il passaggio che mai dimenticherò lo chiesi - e ottenni - quando ormai avevo trent'anni. Ero a Pergine, sulla statale della Valsugana, vicino all'officina di un mago dei motori a cui avevo affidato la mia motocicletta. Stavo lì con il casco in mano e il pollice destro fuori (già da qualche decina di minuti a dire la verità) quando sentii in lontananza il rombo di un motore. Mantenni il dito esposto, quasi per distrazione, mentre il pilota scalava le marce e il frastuono in avvicinamento diminuiva: era una moto da corsa.
«Dio mio fa che non si fermi» pensai. Si fermò. Dagli occhi spiritati che mi guardavano sotto la visiera scura del casco intesi che il centauro era un ragazzo: «Dove vai?» mi chiese. Volevo dire Berlino e invece mi venne fuori Trento. «Metti il casco e salta su» mi ordinò, indicandomi uno spoiler in plastica rossa che copriva quel quadratino che una volta era la sella. Inutile discutere: siamo o non siamo motociclisti? Mi arrampicai lì dietro e mi aggrappai in qualche modo al serbatoio: non entro nei dettagli, chi ha moto come quella conosce la sofferenza (nel mio caso anche l'imbarazzo) a cui è sottoposto il passeggero. Per farla breve - e fu breve veramente - partimmo a razzo verso il capoluogo. Voleva insegnarmi come si guidano le moto. Arrivati alla galleria dei Crozi mi sentii salvo perché una corsia era chiusa e le macchine viaggiavano lente in colonna. Niente da fare, Valentino Rossi fece sbandare il bolide sulla destra e infilò l'area del cantiere come farebbe l'autista di un autobus nella sua corsia preferenziale. Due minuti dopo eravamo alle porte della città. Indicai una piazzola distante cinque chilometri da casa mia: «Fermo qui, sono arrivato». Lo guardai partire impennando, con una consapevolezza nuova: il vero autostoppista è quello che sa quand'è il momento di ritirare il pollice.
Con gli anni i tempi d'attesa sul marciapiede si sono allungati: c'è qualcosa di sospetto in un uomo maturo fermo a lato della strada. Così invece di chiedere passaggi ho cominciato a darli. Le occasioni sono poche, perché gli autostoppisti sono diventati una rarità (colpa del benessere ma anche di certi film e leggende che non aiutano ad avere fiducia nel prossimo) ma io comunque seleziono: carico a bordo quelli che penso mi possano raccontare qualcosa che non so, per lo più ragazze perché - sono convinto - chiacchierano di più. Così l'altro giorno mi sono fermato nel piazzale dove c'era una giovane con lo zaino: «Sali pure» le ho detto. Doveva tornare a casa, in un paese dieci chilometri più avanti. Mi chiedevo di cosa avremmo potuto parlare in dieci minuti di strada quando sentii un brusio intermittente alla mia destra, proveniente dalle cuffiette che si era infilata nelle orecchie.
C'era una volta l'autostop.

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06 agosto 2007

Cadono vipere dal cielo

Sono le nove del mattino, praticamente l’alba, quando mi chiama al telefono una vecchia fonte per regalarmi lo scoop del secolo. Stai attento, mi dice, perché questa che sto per raccontarti è una bomba, giocatela bene e ricordati di me. In tre minuti mi spiega che nei giorni scorsi in un supermercato di Predazzo una madre che faceva la spesa ha perso di vista il figlio, ma essendo una tipa svelta ha fatto bloccare le uscite del negozio prima che i rapitori potessero portare via il bambino. Il finale già lo sapevo: pochi minuti dopo la donna ha trovato il figlio nel bagno del supermercato, con i capelli tinti, assieme a due nomadi che gli stavano cambiando i vestiti. Proprio come era successo sei mesi fa a Pergine, l’anno scorso a Rovereto e chissà quante altre volte tanto che quando gli ho raccontato del mio scoop mancato il collega P. mi ha risposto: «Ma sei sicuro che sia una bufala? Verificala bene perché è successa la stessa cosa all’amica di una mia amica spagnola e la notizia era finita su tutti i giornali».
I giornali spagnoli non li leggo, ma conosco le leggende metropolitane. Come quella andata in scena l’altro giorno in Sicilia della zingara che avvolge i bambini nella sua grande gonna e li porta via come se nulla fosse. Vittima dei pregiudizi della gente una rumena che chiedeva l’elemosina sulla spiaggia è finita in carcere senza nemmeno sapere perché. L’ha liberata il giudice, dopo una notte in cella, quando l’ha guardata e ha visto che la sottana che indossava non aveva stoffa a sufficienza per imprigionare uno di quei bambini che in spiaggia non stanno fermi un attimo. Né tantomeno zitti. Chissà se i bagnanti che l’accusavano le hanno almeno chiesto scusa.
Leggende. Erano gli anni del motorino, c’era da poco l’obbligo del casco e noi ragazzini per dimostrare che eravamo esperti raccontavamo di quel tale che era caduto con la moto e si era alzato illeso: stava lì in piedi sull’asfalto a togliere la polvere dal giubbotto quando gli venne la malaugurata idea di togliersi il casco. Appena levato l’elmetto il cranio gli si aprì in due, giusto a metà, e cadde sulla strada come un’anguria rotta. La storia la sapevamo a memoria ma ogni volta ci scappava un grido di stupore. Il mio amico L. giurava che era vera perché quel tale era un amico di suo fratello.
Altre leggende. Il cow-boy che faceva la pubblicità alle Marlboro è morto di cancro ai polmoni (il collega G. dice che è vera); nel lago di Cei c’è un luccio grande come un pescecane che nessuno è mai riuscito a prendere e ormai dovrebbe avere su per giù cent’anni; se andate in America Latina e vi vogliono vendere un cagnolino diffidate perché probabilmente è un topo; se invece provano a rifilarvi un tronchetto della felicità occhio ai ragni della morte che sono nascosti tra le foglie; a New York state alla larga dalle fogne perché ci sono i coccodrilli, ma non c’è da stupirsi perché ne hanno visto uno anche nel Garda. E se dopo una serata in discoteca la ragazza che avete rimorchiato vi chiede di portarla al cimitero non contrariatela (e soprattutto evitate di baciarla) perché è il fantasma di una giovane morta un sabato sera di dieci anni prima.
Alle leggende ci ho fatto l’abitudine - non ho più paura di ritrovarmi in un fosso mezzo nudo, con una cicatrice sulla schiena dove una volta c’era un rene - ma sono riuscito ancora a emozionarmi l’altro giorno quando un lettore infuriato ha preso il telefono e ha chiamato il giornale: «Scusi lei è un giornalista d’assalto?». Faccio del mio meglio, gli ho risposto. «Bene, allora scriva che è ora di finirla Nei boschi dietro casa mia è pieno di vipere, tutta colpa di quei maledetti Verdi». Perché? gli ho chiesto incuriosito. «Roba da non credere. Le mettono in un sacco e quando è pieno salgono sull’elicottero e le lanciano sulle montagne dove i rettili si erano estinti». Sarebbe stato lo scoop dell’estate, se solo fosse vero.

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08 luglio 2007

Eccesso di privacy

Immagina una busta con il tuo nome scritto sopra e un'informazione importante chiusa dentro. Immagina una signorina gentile vestita con un camice bianco che stringe in mano quella busta e potrebbe agevolmente aprirla, leggere il contenuto e comunicarlo a te che al telefono la stai supplicando, magari distante decine o centinaia di chilometri: «La prego signorina M., io sono il signor ansel, titolare di quella busta, la supplico la apra e mi dica cosa c'è scritto dentro, poi verrò a pagare il ticket fino all'ultimo centesimo, glielo giuro. In base a quello che c'è scritto su quel foglietto mi dovrò organizzare la giornata e quindi, per favore, sia gentile, apra quel pezzo di carta e legga. Se vuole essere sicura che io sia veramente io (le giuro che lo sono, a volte sono confuso, ma mai fino a questo punto) le posso dichiarare la mia data di nascita e l'indirizzo. So recitare a memoria il codice fiscale, le potrei dare il mio numero di casa (che compare anche sull'elenco telefonico) così lei mi potrà chiamare per fare la verifica. Insomma, signorina, la prego in ginocchio anche se ora non mi vede, ignori questo sistema di norme assurdamente rigide che ci tiene prigionieri e faccia uno strappo alla regola per me che quando tutto questo sarà finito l'aspetterò fuori dal laboratorio, le offrirò il caffè e le sarò grato a lungo. Apra la busta e mi dica, finalmente, se mio figlio è positivo oppure no alla scarlattina, perché venire lì nel suo laboratorio, nella città caotica, senza nessuno che nel frattempo abbia la possibilità di badare al piccolo sarebbe un bel problema».
Ma la signorina M. è un tipo tosto: «Signore, io non posso liberarmi da questo sistema di regole di cui faccio parte. Venga qui di persona e le darò la busta». Io tento il tutto per tutto: «Signorina, sento che su di lei le mie parole non hanno alcun effetto: parlo con un disco registrato oppure con una donna in carne ed ossa? Glielo chiedo per l'ultima volta: apra la mia busta e legga che c'è scritto!».
Ma lei per tutta risposta si scusa facendomi capire che nel mio interesse - è della mia privacy che stiamo parlando - non aprirà quella busta chiusa perché nessuno (nemmeno lei) ha il diritto di sapere se un bambino di soli due anni può essere portatore di una malattia infettiva. Solo il medico curante potrebbe superare queste barriere con una telefonata (il padre di un bimbo conta meno del dottore, ma questo si sapeva: la lista di chi ci sta davanti è lunga). Purtroppo la pediatra è in ferie e non risponde al cellulare.
La tentazione di portare ugualmente il piccolo untore all'asilo e scatenare un'epidemia estiva è forte - potrei sempre addossare la responsabilità a M. che protetta dal suo sistema di regole non si sentirebbe nemmeno un po' in colpa - e invece usciamo per andare al laboratorio d'analisi in tutta fretta, ritirare il numerino dal distributore automatico, metterci in coda e ritirare quella famosa busta sigillata pagandola 9,90 euro.
Lì allo sportello, di fronte all'odiata M. (anche se non è un fatto personale), apriamo finalmente la busta e sventoliamo il fogliettino. Momenti di "suspense", rullo di tamburi, musica da grande attesa: signore e signori è negativo, nessuno in quest'affollata sala d'aspetto abbia il timore di prendersi la scarlattina da questo angelico bambino. E grazie a tutti per il rispetto della privacy.
Tutto ciò per dire che quando la riservatezza ci serve veramente ci fanno firmare un pacco di fogli in cui espressamente rinunciamo ad ogni diritto per non bloccare il sistema. Quando invece siamo noi a voler rinunciare alla nostra privacy ("la prego, signorina, apra la mia busta e legga") nessuno ci dà ascolto tranne nel caso in cui ci diciamo pronti ad essere bombardati da messaggi pubblicitari. A proposito: qualche tempo fa scrissi un pezzo sulle nuove norme che avrebbero impedito le telefonate commerciali a chi non le richiedeva espressamente. Arrivano lo stesso, non richieste: dei miei dati fan tutti ciò che vogliono, tu sola, signorina M., hai dimostrato di tenere alla mia privacy. Grazie.

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24 giugno 2007

Dieci anni con il cellulare

Sono passati dieci anni esatti da quando ho comprato il primo cellulare ma mi sembra un secolo, anzi di più: un'eternità. Ricordo benissimo come andò quell'anno: c'eravamo io e un mio collega che volevamo fare i giornalisti così comprammo entrambi un telefonino, un modello semplice che però costava ugualmente molto caro, pensando che in quel modo avremmo avuto più notizie.
Lui fu il primo, io arrivai poco dopo perché non volevo essere da meno e temevo che mi avrebbe fatto concorrenza: tenevamo i nostri cellulari nuovi in tasca ma non chiamavamo mai nessuno perché eravamo squattrinati e sarebbero bastati dieci minuti per esaurire i nostri crediti.
La chiamavano tariffa rossa e mai nome fu più appropriato visto che al costo di 1.900 lire al minuto aveva la capacità di far andare in rosso il conto in banca. Così cominciai a tenere in tasca il mio cellulare muto e quando suonava mi guardavo intorno infastidito senza capire cos'era quel rumore: non c'ero ancora abituato.
Ogni tanto, così per darmi un tono, componevo il numero per conoscere il credito residuo (che era gratuito) oppure chiamavo l'ufficio informazioni (sempre gratis) per chiedere qualcosa, giusto per tenermi in allenamento con il mio cellulare nuovo. Poi arrivarono i messaggini, ma non sapevo a chi mandarli perché non tutti i telefonini - all'epoca - erano in grado di riceverli o spedirli.
Tutto è cambiato. Ormai il cellulare lo tengo sempre in mano - così sono sempre pronto - e lo sento suonare anche quando è muto perché la suoneria mi è entrata nella testa. La vibrazione invece la sento sul sedere. Anche quando l'apparecchio è spento.
In un giorno invio lo stesso numero di messaggi che una volta mi bastava per un mese e ne ricevo il doppio, molti di pubblicità a cui ho dato il via libera per avere in cambio qualche misera notizia. Ogni volta mi agito per niente: al lupo, al lupo, il giorno che riceverò il messaggino che mi cambierà la vita temo che lo cancellerò distrattamente come se fosse l'ennesimo link per scaricare l'ultima suoneria.
Senza fiatare pago bollette così alte che con quei soldi - dieci anni fa - mi sarei comprato il cellulare. Eppure nella mia busta paga non è comparsa la voce telefono, insomma grazie a questo strumento di cui non riesco più a fare a meno mi illudo di essere potente mentre invece sono solo un po' più povero.
Il mio fa anche le fotografie, i video, si collega a internet, trasmette le stazioni radio, mi indica la strada giusta grazie ai satelliti e mi lascia ascoltare la musica mp3. Così quando passa il Giro d'Italia invece di applaudire i corridori tiro fuori il telefono, li riprendo e poi me li riguardo sullo schermo quando torno a casa (perché sotto il sole non si vede). Se il piccolo playboy fa la cacca nel vasino gli chiedo di rifarla perché mi son dimenticato di filmarlo e se mi siedo un attimo sul divano accendo la radio, perché non ho un minuto da perdere.
L'altro giorno sono rimasto senza batteria per mezza giornata e mi sono sentito come se la mia vita fosse rimasta imprigionata in quella scatoletta nera. Quando ho trovato un caricatore adatto ho tirato un sospiro di sollievo e ho recuperato le chiamate perse scoprendo un po' deluso che - tranne una - potevano tranquillamente andar perdute.
Qualcosa non funziona. Non riesco nemmeno più a immaginare come facevo dieci anni fa ad uscire di casa senza il telefonino in mano. Così ho cercato di mettermi in contatto con il mio amico L. che non ha mai ceduto alla tecnologia. L'ho chiamato al telefono fisso ma non c'era, gli ho lasciato un messaggio in segreteria ma non mi ha risposto, l'ho cercato in ufficio ma era appena andato via, l'ho trovato infine a casa quand'era ormai ora di cena e gli ho chiesto trafelato: ma come fai a stare senza il cellulare? Semplice - ha risposto - al posto mio corrono gli altri. Beato lui che se lo può permettere.

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18 giugno 2007

L'ultimo giorno di scuola

Mi dispiace per Michele che non ce l'ha fatta, ma ieri mattina al liceo scientifico Leonardo da Vinci c'è stata una gran festa con i voti appesi alle pareti e la ressa di studenti (e genitori) che prendevano appunti sotto i grandi tabelloni. Tutto come ai vecchi tempi, tranne per un dettaglio: a quelli come Michele che dovranno ripetere l'anno scolastico è stata risparmiata l'onta del voto insufficiente scritto in rosso; accanto ai loro nomi c'era solo una riga bianca e in fondo la scritta "non ammesso". Lui lo sa, Michele, cosa c'è al posto di quel bianco perché l'hanno già avvertito con una lettera inviata a casa: una delicatezza che non si usava quando - ai miei tempi - il compagno A. apprese sotto quel tabellone di essere stato bocciato (questa era la parola) e non parlò più per due settimane lui che, figlio di una professoressa, era sicuro che ce l'avrebbe fatta.
Poiché il liceo Da Vinci è la mia scuola (parlo al presente perché la classe del liceo resta per sempre) mi sono sentito in diritto di entrare e dare un'occhiata in giro. Nonostante la cagnara qualcuno mi ha notato: troppo vecchio (ahimè) per essere uno studente e troppo giovane per essere il padre di un liceale, ma nessuno mi ha fermato mentre passeggiavo su e giù per i corridoi alla ricerca della mia classe.
C'era il professor B., quello che in quinta liceo ci ha portato in gita a Parigi anche se rispetto a noi aveva solo una manciata d'anni in più. Mi è parso tale e quale allora, comprese le studentesse che non hanno smesso di fare la fila per parlare con lui. E c'era la professoressa T. che purtroppo era indaffarata con un genitore, altrimenti forse l'avrei salutata. Chissà se si sarebbe ricordata di me, noi studenti certo non l'abbiamo mai dimenticata. Qualcuno, forse, la sogna ancora: io ho smesso all'università.
Poco è cambiato, tranne forse per i banchi disposti a ferro di cavallo che nella mia sezione non erano permessi. Le lavagne luminose ci sono ancora (niente computer in aula), alle pareti ci sono le mappe geografiche (nell'era in cui su internet ci sono le foto satellitari) ma per fortuna hanno messo i distributori automatici di merendine nei corridoi per evitare agli studenti incauti - quelli che non si sono portati nulla da casa - di morire dalla fame prima della campanella di mezzogiorno.
La mia classe so benissimo dov'è: devo salire le scale, svoltare a destra, poi a sinistra, eccola là. Su un banco che sicuramente non era il mio (perché lo riconoscerei fra mille) c'è una scritta intagliata con una perizia degna di miglior causa: «E' quasi finita». Per me è finita diciassette anni fa quando proprio in quell'aula tentai - sbagliando - di convincere un annoiato commissario d'esame che leggere Pascoli era inutile. Le sbarre alle finestre ci sono ancora: una volta chiudemmo F. tra l'inferriata e i vetri come se fosse un pesce nell'acquario. Fu il professore a liberarlo e la vittima salvò la classe intera evitando di rivelare i nomi dei suoi aguzzini: quel ragazzo aveva un certo stile nel sopportare gli scherzi più crudeli. Non venne più rinchiuso.
In quell'aula già abbandonata al suo destino estivo mi sono guardato un po' attorno finché l'ho visto, appiccicato alla parete, un articolo di giornale insulso e senza firma messo lì forse per ridere. Peccato fosse mio. I ragazzi che l'hanno ritagliato sanno che dico la verità: parla di un piccolo gufo salvato dai vigili del fuoco dopo essere stato investito da un'autovettura sull'Autostrada all'inizio del maggio scorso. Nella mia vecchia classe mi sarebbe piaciuto trovare una mia inchiesta, un bell'articolo di colore, un'intervista oppure quel pezzo di cinque anni fa che resta il mio preferito e invece no: c'è finito il gufetto, guarda un po', tra le risate dei ragazzi. Mi pare di sentirle perché una volta c'ero io lì dentro, in quell'aula di liceo, a ridere e a prendere in giro i grandi.

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09 giugno 2007

L'agenda difettosa

Era la notte fra l'8 e il 9 giugno del 2006 e in cielo splendeva il sole. Almeno per lo strano equipaggio che a bordo di un camper procedeva verso nord a 75 gradi di latitudine o su di lí. Erano in tre e pur non avendo mai messo piede su una barca avevano preso il vizio di chiamarsi come se fossero i membri di una ciurma, abituati com'erano ad organizzare vacanze in cui c'era da sgobbare dall'alba al tramonto. C'era il capitano e c'era il mozzo che in realtà erano pari in tutto, tranne per un potere, l'unico, che l'alto ufficiale un giorno aveva voluto trattenere per sé: quello di decidere qual'era la strada giusta da imboccare di fronte a un bivio ambiguo. Il mozzo sul punto non aveva protestato, aveva accolto anzi la novità con una sensazione di sollievo.
Alla coppia di viandanti si era unito negli anni un marinaio in erba al quale venne assegnato il grado di mozzo (se son rose fioriranno, si erano detti i due marinai esperti) e venne soprannominato "il mozzo piccolo" per distinguerlo con facilità dal collega anziano durante le manovre.
Era la notte fra l'8 e il 9 giugno 2006 (e in cielo splendeva il sole) quando il capitano, il mozzo grande e il mozzo piccolo procedevano verso nord alla scoperta del circolo polare artico. Il capitano era al volante - con un navigatore satellitare taroccato in una mano e un atlante stradale nell'altra - impegnato nella ricerca di un posto adatto per l'attracco. Il mozzo grande e il giovane collega erano sottocoperta a recuperare le forze per la giornata successiva.
In quella notte assolata il capitano era nervoso. Cercava, inquieto, un luogo che doveva essere superiore per qualità, bellezza e fascino ai tanti già sperimentati in quel lungo viaggio, ogni giorno uno diverso. Lo voleva indimenticabile e tale l'avrebbe trovato. Inutile chiedergli il perché, lo sapeva bene lui qual'era il motivo di una ricerca tanto affannosa da apparire quasi disperata.
Passò mezzanotte, poi l'una, le due quando il capitano, che ancora non aveva trovato nulla all'altezza dei suoi sogni, si chiese: quand'è il momento di fermarsi in una notte senza inizio e senza fine? Il contachilometri girava senza sosta, la lancetta del gasolio toccava ormai la linea rossa quando un cervo dalle corna immense attraversò la strada senza fretta. Il capitano lo vide quand'era ormai vicino e prima ancora di frenare - sapendolo cervo, perché come lui sulle montagne di casa ne aveva visti molti - decise all'unanimità che era una renna. Quindi si attaccò ai freni e mezzo secondo dopo sorrise felice per aver salvato la vita di una renna.
L'ebbrezza durò un attimo appena. Da là dietro la voce del mozzo grande superò il rumore di padelle e posate che sbattevano negli armadietti: ma dove siamo? chiese, seguita dal pianto disperato del mozzo piccolo, svegliato di soprassalto nel bel mezzo di un sogno che prometteva molto bene.
Il capitano, esausto e sconsolato, decise che nonostante il sole giunta era la notte: azionò la freccia destra e si rassegnò a dormire nel peggior posto mai toccato, compreso l'albergo greco dove lui e il mozzo grande avevano riposato tenendo addosso le tute della moto. In quell'estate il mozzo piccolo ancora non era in cantiere (o forse sì).
Parcheggiò il camper ("maledetto camper!") a lato della strada, tirò tutte le tende alla ricerca di un po` di oscurità e si coricò accanto a suoi due mozzi che erano tornati silenziosi. Domani - si disse - sarà una gran giornata.
Si svegliò, come al solito, per il trambusto provocato dai due mozzi e superato il disorientamento di chi si alza ogni mattina in un luogo diverso, gli venne in mente che in quel giorno qualcosa gli era dovuto. Studiò con attenzione il comportamento del mozzo grande che - vista l'occasione - era del tutto anomalo. Poiché il capitano era un ottimista pensò: avrà in serbo qualcosa di speciale. Ma nulla accadde e questo gli fece montare la rabbia. Era quasi ora di levare le tende quando il mozzo grande, incuriosito dall'impegno con cui l'ufficiale armeggiava con il suo telefonino, gli chiese: ma chi ti manda tutti quei messaggi? Risposta: la mia amante che mi augura buon compleanno. Il mozzo grande era un tipo svelto e non si perse d'animo: dev'essere una tipa sveglia, capitano, visto che compi gli anni tra due giorni. La sicurezza del capitano venne meno, tre settimane in giro per la Scandinavia potevano averlo messo in crisi, quasi sperò di essersi sbagliato, sarebbe stato dolce ritrovare la fiducia nel suo mozzo, ma gli bastò un'occhiata alle carte di bordo per trovare conferma di quanto già sapeva: il giorno era quello giusto e il suo equipaggio se n'era dimenticato.
Ne seguì un piccolo processo, con il mozzo che sosteneva di essersi appuntato l'evento su un'agenda difettosa. Ma l'agenda non saltava fuori e il capitano perse la pazienza: bene, dov'è il mio regalo? Quando sarà il momento l'avrai, disse il mozzo che non voleva ammettere l'errore.
Il capitano infilò la porta del camper e si allontanò depresso verso la palude cupa dove si erano accampati. Stava lì pensieroso, seduto su un sasso di granito, quando vide un'ombra traballante allungarsi sull'acqua ferma. Si voltò ed ecco il mozzo piccolo avanzare con i passi incerti dei suoi dodici mesi. In una mano teneva un croissant rinsecchito, nell'altra una candelina anti zanzare mezza consumata. Fece due passi ancora finché, giunto vicino al comandante, imbeccato da chissà chi, disse: papà!
Il capitano ne fu molto commosso. Accese la candelina puzzolente, divise il croissant in parti diseguali e promosse il piccolo sul campo al grado di nostromo. Il mozzo grande invece no, stette punito ancora un paio d'ore, poi basta: c'erano tremila chilometri da percorrere per tornare a casa. Meglio evitare le polemiche.

Ps: buongiorno a tutti, è il capitano che vi parla, siamo in Corsica, località Bocca dell'Oro, a sud di Porto Vecchio, cielo sereno, 28 gradi, mare calmo o poco mosso. Quando leggerete questo messaggio io starò festeggiando il compleanno in riva al mare con il mozzo grande e il piccolo nostromo che nel frattempo ha imparato a dire auguri. Basta sorprese, l'equipaggio è stato istruito a dovere. E per non sbagliare ecco l'annuncio anche sul blog, grazie al fido Aigor incaricato di pubblicare fuoridalpalazzo testi e scarpe sperando che, con le chiavi di casa in mano, non si prenda troppe libertà. Quello che non vi ha detto, Aigor, è che non posso vedere i commenti né rispondere: il mio gestore telefonico e il suo socio francese ne sarebbero felici, il mio conto in banca molto meno.

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