Terapia d'urto
Cari lettori di questo blog, un attimo di attenzione prego. Sono lo psicanalista di ansel e tocca a me prendere in mano la situazione. Da tre mesi ormai il mio paziente vive in un mondo parallelo con un atteggiamento che talvolta sconfina nella paranoia. L'ultimo episodio è dell'altro giorno quando è uscito dal palazzo camminando raso muro e trascinando i piedi: è convinto che la gente lo riconosca dalle scarpe.Quelle scarpe. Un vecchio paio di Camper (ops, ho detto il nome) da cui non si separa nemmeno per un attimo confidando che - presto o tardi - assisterà al grande evento e sarà immortalato con quelle calzature addosso. Nel frattempo l'hanno visto a carnevale mentre si fotografava i piedi su un selciato cosparso di coriandoli, l'hanno sorpreso con le scarpe mentre era a letto malato e nel soggiorno di casa impegnato a fotografarsi durante uno scatto da centometrista. Solo una volta si è separato dalle Camper (ops, l'ho detto ancora) ma fu solo per cederle a un suo compagno di bisboccia.
La situazione non è più sostenibile.
Sono il suo medico e su mia precisa prescrizione - in accordo con gretel e in nome del piccolo playboy - l'ho convinto ad appendere le scarpe al chiodo: le userà per esplorare la realtà fuori dal palazzo una volta alla settimana, forse due, non di più.
Ora è di là, scalzo. Dice cose senza senso che forse a voi - popolo dei blog - suggeriscono qualcosa: shinystat, technorati, blogroll, post, feed, hits, permanent link e target blank (la sua vera ossessione).
Serve una terapia d'urto.
In questi tre mesi di blog ha navigato in rete molto più a lungo della figlia di Bill Gates e ha visto cose che noi gente normale non possiamo nemmeno immaginare come - ad esempio - questo blog. Ha ammirato tramonti d'alta quota pensando che meritavano un bel post, ha trascorso il giorno di Natale controllando le statistiche d'accesso al suo sito, il Capodanno prendendo appunti per i post futuri e si è commosso per un commento che, secondo lui, ha colpito nel segno. Conosco quel commento ma il segreto professionale mi impedisce di rivelare quale sia. Comunque, se vi interessa il mio parere, non c'è nulla di speciale: un dialogo tra matti. Ma quel giorno, questo è certo, il mio paziente era felice.
I libri sulla lavatrice del suo bagno biblioteca si stanno accumulando. I film tornano in videoteca senza che nessuno li abbia visti. I preferiti del suo browser sono inutilizzati ormai da settimane e l'orizzonte di scrittura del mio paziente si è ridotto a venti righe: quanto basta a farci un post (ormai sono un addetto ai lavori pure io). Ma a lui non basta un post qualunque. No, nella sua follia ansel vuole un post memorabile, almeno un gran post se non il post definitivo: il post perfetto. Attende il momento giusto come il tenente Drogo attese l'arrivo del nemico tra i bastioni della Fortezza Bastiani (esatto: il Deserto dei Tartari è il suo libro preferito).
Temo per la sua incolumità dal giorno in cui si è fotografato le scarpe in cima alla torre civica di Trento. Vi ha fatto credere che dentro le Camper, in quell'istante, c'erano anche i suoi piedi? Palle! Le stava tenendo in mano, ma se aveste visto le foto del backstage con il mio paziente a piedi scalzi a cinquanta metri d'altezza converreste con me che non c'è nulla da scherzare.
Ora si è messo in testa che le macchine possono andare anche ad olio. Ho detto olio, non gasolio: quello che serve per friggere le patatine. Ha fatto anche un video. Finora sono riuscito a bloccare il post sull'argomento, ma non garantisco sul futuro: temo che riuscirà ad aggirare la mia sorveglianza.
E ora mantengo la promessa che gli ho fatto poco fa. Per i lettori giunti in fondo a questo lungo post, quelli che potrebbero non accontentarsi di un post settimanale, ecco un centinaio di pagine da leggere. Insomma, ecco a voi un libro. Mi ha pregato di dirvi che non si tratta di un libro nel cassetto, perché non è quello il posto dei libri, ma di un racconto che sarebbe già stato pubblicato se non fosse che l'autore (ansel) è paralizzato dal terrore di ritrovarlo in vendita a metà prezzo su una bancarella fuoridalpalazzo: capito la follia? Ma ci stiamo lavorando.
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Caro collega anonimo, ti scrivo dal futuro per avvisarti che hai sbagliato. Ho letto un tuo pezzo su un ritaglio di giornale del 1972 (titolo: fra trent'anni tre mesi di ferie) e ho visto che prevedevi per noi uomini del 2000 una settimana lavorativa di 28 ore suddivise su 4 giorni con tre mesi pieni di ferie all'anno. E' andata male, putroppo: lavoriamo esattamente come voi degli anni Settanta, cioè 40 ore settimanali con 4 settimane di ferie l'anno. Peccato.
In perfetta coerenza con lo spirito dell'iniziativa parlerò della Giornata della lentezza con cinque giorni di ritardo: era lunedì scorso e questo è il post di domenica, più lenti di così si muore ma queste sono le regole del gioco e non ho sensi di colpa. Il fatto è che ci hanno allevati esortandoci a far presto di continuo: svegliati, spicciati, muoviti, fai veloce, sbrigati, pedala, galoppa e datti una mossa. Non c'è bambino a cui si dica "fai piano" tranne forse quando si sta strozzando per la velocità con cui mangia un panino, ma questa è un'altra storia che con la celerità non ha nulla a che vedere. Scrollarsi di dosso, anche solo per un giorno, gli inviti ad essere rapidi accumulati in una vita vissuta alla rincorsa non è un'impresa facile.
C'è chi lo beve espresso, macchiato e corretto. Ma se l'elenco finisse qui sarebbe troppo facile: può essere lungo o ristretto, macchiato caldo o macchiato freddo, corretto vecchia, corretto grappa o infine con la correzione a parte. Basta? Macché! C'è chi lo vuole d'orzo (magari in tazza grande) e chi decaffeinato (e per di più pretende che sia della marca giusta). E ancora: marocchino, americano, irlandese (irish), viennese, con panna e con gelato. Quand'è estate si può chiedere con ghiaccio oppure shackerato mentre i più raffinati lo vogliono con una spruzzatina di cacao. Finito? Mi fermo qui anche se potrei continuare a lungo. Parlo di caffè, ma della tazzina mi importa poco: se chiedo un macchiato caldo e mi portano il bricchetto del latte freddo a parte nemmeno me ne accorgo. Il punto è che se gli italiani fanno i difficili già di primo mattino davanti al bancone del bar, poi è inutile lamentarsi quando alle elezioni si trovano di fronte una
Da ieri sono ufficialmente un coglione e qui sopra - se fosse necessario - c'è la prova. Ma io non sono un coglione normale, io sono andato oltre. Era la primavera dell'anno scorso quando tentavo di convincere amici e conoscenti che il voto andava messo a sinistra, che bisognava mandare a casa quella destra (proprio quella che ci chiamava coglioni), che dovevamo sperare in un governo nuovo e soprattutto che non avremmo ripetuto gli errori del passato perché nessuno della sinistra (nessuno!) avrebbe avuto il coraggio di far cadere il nuovo governo per consegnare il paese un'altra volta a Berlusconi. Che coglione.
Per motivi che a chi legge da lontano possono sembrare strani - abituato ad autobus, camion oppure ferrovie - davanti alle finestre della nostra camera da letto passa una funivia. Così quando sorge il sole il piccolo playboy, che nel frattempo ci ha raggiunto, rompe il silenzio del quartiere puntando il dito indice verso il cielo e accompagnando il gesto con un grido: "Ahhhhhhhh!". Funivia. Allora noi tiriamo su il piumone e ci giriamo dall'altra in attesa del prossimo passaggio (Ahhhhh!, non se ne perde uno) sapendo di poter contare su un bonus di un quarto d'ora circa che - rispetto ai cinque minuti tradizionali - in fondo non è male. Sperare che, per qualche motivo, la piccola cabina ritardi non è lecito perché siamo in Trentino e da nove anni almeno certi pensieri li abbiamo eliminati.
Nella vita arriva sempre un bivio. Talvolta capita che non ti accorgi nemmeno della svolta e continui per la tua strada come se fosse l'unica possibile. Poi - a distanza di anni - ti volti indietro per ripetere il percorso sull'onda dei ricordi e scopri che se ora sei lì, al tuo posto, un motivo c'è: il bivio. Oggi è l'anniversario del mio bivio. Era il martedì grasso di molto tempo fa e tra le tante possibilità decisi che - in un mondo in cui la massima aspirazione di un bambino era diventare uno sceriffo - io avrei fatto... l'indiano. Erano anni in cui le famiglie si riunivano davanti alla televisione per guardare zio Zeb che portava la sua famiglia americana alla Conquista del West: fare il pellerossa non era una scelta facile. E infatti mi ritrovai nel cortile della parrocchia con il mio vestito arancione da Sioux, un arco finto e qualche freccia assieme a un fantasmino (vestito facile, bastava un lenzuolo con due buchi al posto degli occhi) e a un petroliere arabo (come il fantasmino, solo che bisognava lasciare libero il volto e prendere una tanica di kerosene dal garage). Eravamo lì, noi tipi strani, in mezzo a una folla di cow-boy urlanti - cappello, fazzoletto al collo e baffi disegnati sotto il naso - che facevano bang! bang! con la pistola tentando di impressionare una folla altrettanto affollata di fatine con la bacchetta in mano. In quel piazzale addobbato a festa doveva esserci, da qualche parte, la mia squaw ma nella moltitudine di yankee non riuscii a trovarla e tornai a casa un po' infelice. La incontrai solo dopo molti carnevali (con un berretto strano in testa, e non era martedì grasso!) quando ormai mi ero reso conto di quel bivio, talvolta un po' nascosto. E' la svolta che porta alcuni a rompere le righe (o andare sopra le righe) in un mondo di gente che sta in riga, che porta altri a cantare fuori dal coro, senza per questo essere stonati. A me di quel vestito arancione è rimasta la passione di lasciare le mie tracce fuoridalpalazzo, senza rimpianti per una stella da sceriffo. E se oggi alla sfilata vedrò un bambino con un vestito diverso dagli altri farò il tifo per lui. Augh!
Non bisognerebbe mai scrivere un pezzo ironico quando si sta poco bene, perché c'è il rischio di non riuscire a muoversi in equilibrio sul filo sottile che separa la realtà dalla finzione. Io ho commesso quest'errore e sul giornale di ieri è uscito un pezzo un po' triste (così mi hanno scritto) per di più dedicato ai piccoli playboy (cioè i bambini, per chi non legge assiduamente questo blog). Ora che sto meglio (wow!) rimedio subito affrontando l'argomento con una buona notizia: una delle lettrici di questo blog è in dolce attesa! Sarà lei - se vorrà - a fare outing con il suo (nick)name, intanto però ha già rivelato che sarà costretta a rinunciare alla sua passione per il golf inviando questo annuncio a una ristretta cerchia di amici. Il golf (sic!), sport da ricchi nonnini (più che da giovani genitori) di cui non riesco a capire il costo della rinuncia... Tutto questo per dire che la lettrice in realtà ha commesso un plagio, perché il primo ad informare il mondo della nascita di un piccolo playboy con un annuncio economico fu il sottoscritto. Questo è
Ahi ahi! A quanto parte oggi mi è toccata la cosa che più temo: dovrò restare dentroilpalazzo!
Per trovare un bagno biblioteca non devo fare molta strada: ce n'è uno a casa mia. La prima regola per un bagno di questa categoria è semplice ma fondamentale: il materiale di lettura deve già essere pronto vicino al wc, perché non sempre c'è il tempo - quand'è ora - di cercare un libro o un giornale adatto al momento. La seconda regola smentisce il luogo comune secondo cui le opere da leggere in bagno devono essere di infimo livello così - all'occorrenza - si possono usare le pagine quando finisce la carta igienica. Vergogna! Le letture in un bagno biblioteca devono essere di ottima qualità e che nessuno si sogni mai di usare le pagine per altri scopi (anche perchè la carta ruvida dei libri o patinata delle riviste sotto quel profilo vi lascerà del tutto insoddisfatti).
ansel: ehi! gretel, dove sei? ho scritto un post! devi leggerlo! che post ragazzi, un gran post! che ritmo, che contenuti, che stile! che scorrevolezza, che originalità! greeeeetel, dove ti sei cacciata? devi assolutamente leggere questo post, non puoi perderlo! è il mio migliore! o forse no: il migliore è quello che scriverò domani! eh eh eh! gretel, gretel ma dove sei finita? questa volta gliene ho cantate quattro, vedrai, ma era ora che qualcuno lo facesse, perbacco, bisogna pur che qualcuno le scriva certe cose, una volta per tutte. gretel! greeeetel! ah eccoti qui! ti eri nascosta? tieni, leggi: fai attenzione soprattutto all'inizio, molto garbato, poi cresce, monta, vado giù duro. troppo duro? ma no, ci sta tutto, quelli se lo meritano. certo non ho fatto nomi e cognomi, mi sembrava esagerato... dovevo? forse ho sbagliato, chissà... che dici, ho sbagliato? ma siamo ancora in tempo, ora ci metto mano e lo cambio. sì, sì, devo modificarlo, c'è un altro passaggio che non mi convince, ad esempio questo e poi questo... ma gretel, che fai? cosa stai leggendo? il post è questo in alto! l'hai saltato in tronco! quelli in basso sono i commenti!!!
Gli appelli si moltiplicano: ci hanno chiesto di sostituire le lampadine a incandescenza, cioè quelle normali, con altre a basso consumo e noi l'abbiamo fatto. O meglio: l'ha fatto chi è riuscito ad avere il kit gratis dalla sua società elettrica gli altri non so, perché quelle lampadine durano una vita (più o meno il tempo che ci mettono ad accendersi) ma costano anche venti euro.
Il bagno anni Settanta è un errore della storia. Anche l'agente immobiliare, quello che parla una
Oggi mi ha chiamato la morte ma il mio telefono per fortuna era occupato: triste signora con la falce, mi dispiace, ci sentiamo un'altra volta. Erano le 9 e 17, evidentemente la mia ora, quando stavo conversando con un'altra persona a cui sono debitore anche se è un vigile urbano. Nel parlare sento un bip e poi un altro e un altro ancora perché la morte, quando vuole, sa essere insistente. Ma io - con l'arroganza di chi ignora - ho deciso che la signora, chiunque fosse, perbacco, poteva aspettare il proprio turno.
Sono arrivato al limite, ma un altro giro fuoridalpalazzo con questo paio di calzini me lo faccio. Spero non mi capiti di entrare in una moschea com'è successo la settimana scorsa in Turchia al
Con un paio di sci Spalding e due scarponi marca Caber cominciai la mia esperienza sulla neve. Erano gli anni in cui lo sci si praticava in coda, fermi per venti, anche trenta minuti in attesa allo skilift, facendo attenzione a non pestare le code degli sciatori più avanti, compito difficile con attrezzi che - nel caso dei più bravi - superavano i 2 metri e 10. Lo skipass non c'era: al suo posto si usava un tagliandino di carta che l'addetto fissava al collo con uno spago bloccato da un sigillo. Chi voleva spendere poco acquistava i "punti" e quando finivano andava al bar.
1° febbraio 2007, ore 19.55: i computer no, ma la luce l'abbiamo spenta, come la 
